Fatti
Tasse e manovra economica, il dibattito è come sempre arroventato, i partiti si rimpallano accuse reciproche e per un cittadino diventa difficile orientarsi. Se però l’Istat, la Banca d’Italia, l’Ufficio parlamentare di bilancio e la Corte dei conti sostengono – nelle audizioni in Senato – che le misure del governo non incidono sulle disuguaglianze sociali e, anzi, finiscono paradossalmente per premiare i più abbienti, c’è evidentemente qualcosa che non va. Nel mirino soprattutto la riduzione della seconda aliquota Irpef dal 35 al 33 per cento. L’Istat, in particolare, ha spiegato che oltre l’85 per cento delle risorse andrà alle fasce di reddito più elevate: le famiglie del quinto più alto nella distribuzione del reddito guadagneranno in media in un anno 411 euro in un anno, quelle collocate all’altro estremo della scala soltanto 102. E comunque per tutte le fasce il beneficio sarà irrisorio. Del resto lo stesso governo ha valutato pari a zero l’impatto della manovra sulla crescita economica e questo è il vero limite della manovra. Senza crescita, tenere i conti pubblici in ordine serve a poco e soprattutto non consente di correggere le storture del nostro sistema tributario, viziato da un’evasione che nonostante un certo recupero continua a essere molto alta e dal costante spostamento dei redditi dall’Irpef a forme di tassazione separata. Così il criterio costituzionale della progressività – l’aliquota dell’imposta cresce all’aumentare dell’imponibile – viene sempre più spesso eluso. Lo stesso dibattito sulla cosiddetta “patrimoniale” rischia di rimanere sul piano della propaganda, sia da parte di chi la sostiene, sia da parte di chi la osteggia, perché il vero problema è la diversità di trattamento a parità di reddito tra chi è sottoposto prevalentemente al sistema di tassazione progressiva e chi beneficia di regimi forfettari, che per giunta sono quelli che di fatto facilitano l’evasione. Certo, anche l’Irpef contiene elementi antiegualitari (l’espressione è impropria ma rende l’idea) perché gli interventi sugli scaglioni di reddito più bassi avvantaggiano automaticamente anche quelli più alti. Ma in questo caso è possibile introdurre dei correttivi, sempre che politicamente lo si intenda fare. E questo è il punto. E’ la politica che deve assumersi le proprie responsabilità, senza nascondersi dietro i numeri e i vincoli tecnici. Anche lo stracitato concetto di “ceto medio” – su cui non a caso i sociologi faticano a trovare una formulazione univoca – nel discorso pubblico appare sempre più legato all’individuazione di un certo segmento di elettorato che non all’interpretazione di una determinata condizione sociale e tanto meno reddituale.
Di questo occorre tenere conto nell’interpretazione dei comportamenti dei soggetti politici in una fase che è allo stesso tempo lontana e vicina dall’appuntamento decisivo a cui tutti guardano, quello delle elezioni generali del 2027. La tempistica è cruciale soprattutto per chi è attualmente al governo. Questa manovra economica è l’ultima in cui è possibile compiere anche qualche scelta controversa rinunciando a ottimizzare i consensi. La prossima arriverà praticamente in campagna elettorale.