Idee
Tra poco saranno trascorsi due anni, ma sembrano molti di più. L’attacco di Hamas del 7 ottobre 2023, la durissima risposta militare israeliana e la spirale di violenze che è seguita hanno cambiato la nostra stessa percezione del tempo, tra crisi umanitarie e tensioni che ormai si stanno allargando al di fuori del Medio Oriente. Una situazione difficile da leggere, al di là degli slogan degli opposti schieramenti: Claudio Vercelli è storico dell’età contemporanea, docente di Studi ebraici all’Università Wsus di Poznań e alla Scuola europea di alta formazione di Lecco, nonché ricercatore presso la Fondazione Salvemini di Torino, e la sua Storia del conflitto israelo-palestinese, recentemente aggiornata e ripubblicata da Laterza, rimane un’opera di riferimento per capire le radici e gli sviluppi di una delle crisi più lunghe e intricate del nostro tempo.
«Il quadro è estremamente complesso: quello che appare certo è che siamo davanti a un conflitto che, pur asimmetrico, coinvolge l’intero Paese e segna una frattura profonda, non solo in Medio Oriente ma anche nelle relazioni internazionali. Da un lato il Governo israeliano, sostenuto da una maggioranza radicalizzata, non intende soltanto sconfiggere Hamas, ma ridisegnare nuovi assetti per Gaza. C’è una componente che spinge apertamente verso l’annessione territoriale e l’espulsione progressiva della popolazione palestinese; un’altra, più prudente, preferirebbe affidare la gestione della Striscia a forze terze, al momento però ancora indefinite. Intanto la popolazione di Gaza vive in condizioni insostenibili, in una sorta di esodo interno permanente al limite della tragedia umanitaria».
In Cisgiordania nel frattempo l’espansione degli insediamenti continua a frammentare il territorio, rendendo sempre più irrealistica la prospettiva di uno Stato palestinese, nonostante il recente riconoscimento da parte di diversi Paesi europei. «Oggi nemmeno le attuali leadership palestinesi puntano davvero a questo obiettivo – afferma lo storico – Negli anni Novanta ci fu una possibilità, ma venne rifiutata; sono passati venticinque anni e oggi Hamas, la jihad islamica e persino la stessa Autorità nazionale palestinese hanno trovato una ragion d’essere nella tensione permanente più che in un processo negoziale di lungo periodo».
Secondo lo storico anche la società israeliana sta attraversando mutamenti profondi, segnati da contrapposizioni durissime: «C’è chi appoggia il governo di Benjamin Netanyahu, chi teme per la stessa tenuta democratica del Paese. Il risultato è un quadro non solo complesso, ma problematico e angosciante, che pesa sia sui civili palestinesi, bersagliati dal conflitto, che sugli israeliani, divisi da tensioni interne che erano già molto aspre prima del 7 ottobre».
Perché Hamas abbia scelto di scatenare un attacco di tale portata resta una domanda aperta. «Certamente è stato un evento meditato da tempo e condotto con lucida disciplina – sottolinea Vercelli – Probabilmente Hamas voleva rompere uno status quo che appariva immutabile e rilanciare la questione palestinese a livello internazionale. Inoltre, dopo oltre vent’anni di governo nella Striscia, il movimento mostrava segni di logoramento: l’operazione è servita anche a ridefinirne il ruolo nel mondo delle formazioni radicali islamiste». Non va infine trascurata la dimensione geopolitica: «Hamas agisce anche come proxy (intermediario, ndg) di attori più grandi, a partire l’Iran, tutti interessati a destabilizzare gli equilibri internazionali».
Resta il tema degli ostaggi che, spiega Vercelli, è insieme una questione morale, umanitaria e simbolica. «Chi si oppone alla guerra sottolinea l’urgenza della loro liberazione, mentre altri la considerano secondaria rispetto all’eliminazione di Hamas. Il fatto che il movimento non sia stato distrutto e mantenga una capacità di resistenza rivela che comunque non sarà semplice sradicarlo del tutto, mentre la perdita di credibilità internazionale di Israele rischia di avere conseguenze durature sul piano politico-diplomatico».
Negli ultimi mesi il termine “genocidio” è entrato nel dibattito pubblico. «Le etichette rischiano di semplificare e confondere. Senz’altro c’è l’incubo della pulizia etnica, ridurre però tutto alla parola genocidio rischia di alimentare paradossalmente quelle stesse dinamiche radicali che si vorrebbero condannare. Più si demonizza e si isola un soggetto, più in un certo senso lo si autorizza alle condotte più riprovevoli».
Un punto centrale riguarda, infine, le origini stesse dello Stato d’Israele, spesso anche in Occidente identificato come la fonte di tutti e i mali e le conflittualità che affliggono il Medio Oriente: «Già prima del 1948 però le due comunità, ebraica e araba, vivevano tempi politici e sociali diversi, con traiettorie distinte. La nascita di Israele avvenne all’interno di una soluzione negoziata dall’Onu, che prevedeva anche uno Stato arabo: furono proprio le leadership arabe a rifiutare, incapaci di darsi strutture autonome nel territorio dell’ex mandato britannico. Questo non cancella la tragedia dei profughi, che ancora oggi non hanno trovato una piena sovranità, ma mostra come ridurre tutto a un gioco tra buoni e cattivi sia fuorviante. È necessario tenere la barra al centro dell’analisi storica, senza cui si scade nella propaganda».