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Rubriche | I Blog/La mano alzata - Stefano Bertin

lunedì 10 Giugno 2019

La forza dei simboli e della tradizione. La vigilanza e la custodia

L'esperienza umana non è pura astrazione, testa e cuore vanno sempre coniugati

Stefano Bertin

Analisi del testo poetico. La prova chiede: trova le figure simboliche presenti nella poesia e prova a spiegarle. Gaia alza la mano e sbotta: «Scusi prof, ma che senso ha questo esercizio? Se un simbolo lo spieghi, lo rovini!».

La studio un attimo, voglio scoprire se ci sta prendendo in giro. Dal momento che non dà segni di ironia, rilancio: «In che senso lo rovini?». Ci pensa su e risponde: «Se il poeta ha scelto di comunicare coi simboli, è giusto rispettare il suo campo di gioco, non possiamo cambiarlo. Spiegare significa fare un ragionamento, mentre il simbolo è un’immagine che parla». A questo punto non è importante se la risposta di Gaia è completa, ma ringraziarla per averci ricordato il valore e la forza dei simboli.

La questione dei simboli, ma prima ancora del loro rispetto, è di grande attualità. Viviamo in una società che tarda a comprendere la necessità di coniugare la testa con il cuore. In più ambiti, si ha la pretesa di ridurre ogni esperienza umana a una astrazione, misurabile dalla sola ragione. Lasciando così, paradossalmente, che il patrimonio millenario dei simboli, con la loro forza propulsiva, venga saccheggiato da chiunque voglia impadronirsene strumentalmente, per rivestire i propri progetti, non sempre edificanti, sulla società e sulla politica.

Siamo entrati in un simbolismo 2.0: un limbo senza memoria, in cui puoi trasferire tranquillamente un simbolo da un contesto all’altro, cambiandogli di significato. Mi è successo di sentire in pullman una scolaresca, del tutto ignara delle implicazioni storiche e politiche che tanto fanno litigare appassionatamente gli adulti, cantare a squarciagola Bella ciao, solamente perché è la sigla finale di una serie tv di successo. A questo curioso episodio di gita scolastica, potremmo affiancare ben altri recenti episodi che hanno riguardato la strumentalizzazione dei simboli religiosi, ma trovo che in merito abbia pienamente e intelligentemente scritto, nelle scorse settimane, il direttore della nostra Difesa.

Voglio invece richiamare la necessità della vigilanza e della custodia. Nel suo significato originale “simbolo” vuol dire “mettere insieme”, richiamando l’unione di ciò che non vuol rimanere separato, frutto di una reciproca attrazione. Quasi a indicare il superamento degli individui per formare un intero, che li comprende e li supera. Il simbolo, inoltre, rimanda sempre ad altro, rompe ogni tentativo di chiusura e apre sempre a un oltre, un ulteriore. Ma se viene snaturato, il simbolo diventa diabolico: portatore di divisione. Diviene il regno della chiusura e della guerra tra gli opposti. Questi ultimi sentono di poter bastare a se stessi e percepiscono la sola presenza dell’altro come una minaccia, da cui difendersi.

Si può concordare con chi richiama come lo stesso pronome “noi” ‒ che unisce i singoli in un’appartenenza comune – può essere perversamente utilizzato come una clava contro “gli altri”. Stessa cosa è successa e rischia ancora di succedere alla Croce cristiana: segno, nudo e spoglio, di dolore e contrizione divenuto simbolo della salvezza del Risorto, ma anche utilizzato come strumento di persecuzione nei confronti di infedeli ed eretici. Fino ad arrivare a oggi, dove rischia di diventare un orpello insignificante, un pretesto di lotta politica tra schieramenti opposti.

Non possiamo rassegnarci a questa strumentalizzazione, se non vogliamo che quanto ci ha donato la tradizione diventi un frutto avvelenato per le nuove generazioni.

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