La propaganda politica di inizio Novecento era fatta di slogan diretti e ripetuti, faccioni dei leader, simbologie precise. La propaganda politica, allo scoccare del primo quarto del Ventunesimo secolo, è un pozzo artesiano senza fondo di video virali divertenti, all’apparenza innocui e inoffensivi, che però – superando i confini nazionali – rinforzano stereotipi e agende politiche di soggetti ben precisi. Il partito comunista cinese, in particolare. C’è stato un passaggio verso la metà dello scorso decennio in cui tutto è cambiato. I social si erano trovati di fronte a un grosso ostacolo: tanta gente vi entrava, pochi vi scrivevano o producevano contenuti. Il rischio di “social vuoti” ha spinto i colossi a favorire la produzione di materiali incoraggiando l’upload di foto, status e brevi video. Non è bastato. E così hanno scelto di sposare il più grande esperimento psicologico della storia: superare i “mi piace” e i “follow” come criterio di selezione dei materiali da proporre e virare verso contenuti virali premiati dagli algoritmi perché visualizzati, spolliciati e cliccati da milioni di soggetti. Questo ha trasformato i social media in bombe dopaminiche paragonabili alle slot machine, con contenuti sempre più superficiali e basici all’apparenza ma in grado di scombinare i circuiti cerebrali distruggendo ogni complessità. Tutto è estremo, per intensità e per numeri: in questo modo i soggetti malintenzionati hanno avuto vita facile. Su TikTok, Instagram e Facebook abbondano video all’apparenza innocui in cui si contrappongono bambini occidentali e africani che giocano e ballano a diligenti bambini cinesi che studiano e costruiscono oggetti. In altri video si enfatizza la bellezza delle ragazze cinesi (e russe) contro la bruttezza di donne occidentali (e africane). Questo è un pezzo – non lineare – della terza guerra mondiale a pezzi che si sta combattendo. A partire da dentro le nostre teste.