Erich Maria Remarque in “Niente di nuovo sul fronte occidentale” narrò la morte, l’angoscia e le ferite, fisiche e interiori, dei soldati durante e dopo la grande guerra. Clemente Rebora, che nel 1913 aveva consegnato alla storia della letteratura i suoi “Frammenti lirici”, uno dei manifesti della nuova poesia del Novecento, in quella stessa guerra subì lo choc dell’esplosione di una granata a pochi passi da lui. Ricoverato in ospedale, parlò come se quel trauma gli avesse spalancato altre porte, tant’è che uno dei medici che lo ebbe in cura bollò le sue parole come “manìa d’eterno”. Qualche anno dopo il grande poeta abbandonava tutto ed entrava in una radicalmente nuova vita, facendosi sacerdote rosminiano.
Anche negli Stati Uniti, esponenti del cosiddetto trascendentalismo, come Thoreau, invitarono alla disobbedienza civile, che poi sotto altre forme divenne “manifesto” gandhiano, contro la guerra con il Messico e contro la schiavitù: un percorso che avrebbe portato al celebre “I have a dream” di un altro paladino della pace: Martin Luther King.
Anche dalla Russia zarista erano arrivate nuove voci che imploravano il ritorno alla pace: Tolstoj aveva capito come lo spirito della guerra affascinasse da sempre gli uomini attraverso figure come quella di Napoleone, convinto di impersonare lo spirito della storia: solo la vista dei cadaveri, dei morenti e dei feriti in “Guerra e pace” diventava un momento di verità e di sguardo sugli abissi del male. E lo stesso scrittore russo portò fino alle estreme conseguenze la sua convinzione che gli aveva fatto capire come la guerra fosse solo ennesimo sacrificio degli ultimi, diventando un pacifista radicale e difensore dei poveri, fino ad andare lui stesso a morire, in fuga da una sazietà che lo aveva nauseato, in una lontana stazione di campagna.
Ma anche i classici avevano narrato il non senso di una guerra che consentiva carneficine e sacrificio degli stessi componenti della famiglia, come accade nella Ifigenia in Tauride di Euripide, o nei grandi poemi epici di tutte le latitudini. Non vi troviamo solo duelli, ma anche sconsolate considerazioni sulla follia delle guerre volute dai potenti.
Per non parlare della contemporaneità di intellettuali come il compianto Tiziano Terzani che, dopo l’esperienza diretta dei regimi ammirati nella sua giovinezza di convinto comunista, soprattutto la Cina, deve ammettere che anche lì la guerra era servita solo per instaurare regimi oppressivi. Il che significa in parole povere che il conflitto era semplicemente un gioco di potere e che solo la pace può offrire un domani all’umanità.
Ma, prima di Terzani, altri grandi avevano rivelato nelle loro pagine come la guerra fosse solo il sacrificio di coloro che erano già stati immolati alla miseria, come accade nei Promessi sposi di Manzoni o nei romanzi, soprattutto I Miserabili e I lavoratori del mare, di Hugo.
E non è un caso che Gandhi, uno dei profeti della pace, riconoscesse in Tolstoj il maestro che indicava la via della fratellanza tra gli uomini, al di là delle differenze di sangue, di classe e di religione. E in Italia questa linea di pensiero pacifista e di fratellanza venne fatta propria da Aldo Capitini, che riprese molte delle eterodosse convinzioni religiose di Tolstoj e che pagò di persona questa convinzione sotto il fascismo.
E, a proposito di religione e di Chiesa, Giovanni XXIII con la Pacem in terris era stato molto chiaro: la distruzione di città e dei loro abitanti è un delitto che deve essere sempre, e senza esitazione, condannato; due anni dopo la Gaudium et Spes con Paolo VI farà notare come la guerra “danneggia in modo intollerabile i poveri”: mai parole sono state più realistiche di queste.