Arriva l’estate e, ahimè, le persone sole lo sono sempre di più. Per non parlare di quelle depresse… Chi ha una vita sociale, un’abbondanza di passioni e di curiosità vive, invece, la stagione della pienezza. È una fioritura di attività, partenze, progetti che non passa inosservata. Eppure per una fetta di persone non è così e quella luce che secca i prati se non arriva l’acqua, tanto è forte, non riesce ad accendere le loro giornate. È quello che ho pensato vedendo il film Scomode verità del regista e sceneggiatore Mike Leigh, per la cronaca un ottantaduenne di una lucidità spaventosa nel mettere a nudo la radiografia di una depressione. Se vi dico Segreti e bugie, Il segreto di Vera Drake, Another year… sicuramente qualcuno lo ritroverà nella sua valigia filmica. È una Londra con il sole, senza particolare degrado quella suburbana messa in scena dal regista britannico, quasi a dire, non date la colpa al nuvoloso e al degrado. E, infatti, c’è chi si sveglia bene e si orienta alla sua giornata di lavoro come Curtley che avvia il furgone verso tanti lavori e lavoretti da artigiano. E c’è chi si sveglia invece sempre male, col piede sbagliato, di soprassalto, di cattivo umore come sua moglie Pansy, la bravissima Marianne Jean-Baptiste per quanto respingente nel suo personaggio. E a ruota c’è il figlio Moses che per quanto cerchi di sfuggire all’ombrello materno non è per niente fuori dal raggio di ombra tremendamente cupo della madre. A Pansy manca l’aria ma non le interessa immetterla nei polmoni. Si è svuotata nel tempo, senza inspirare aria rivitalizzante, sotto gli occhi distratti e passivi di un maschile familiare troppo impotente. È una donna ricurva su sé stessa e quando è sola questa postura esplode in tutta la sua struggente drammaticità. Quando è in società, sia nelle relazioni di routine sia con gli sconosciuti si trasforma, invece, in un’atroce tau romachia: lei è senza dubbio sempre nella parte del toro che attacca. È incattivita, è diventata un’attaccabrighe di professione, insulta chiunque senza ritegno, non ha pietà per nessuno se non un po’ per la sorella che, come un pungolo, non smette di riportarla di fronte alla domanda-madre, un’interpellazione che diventa irrimediabilmente per tutti. Perché non riusciamo a godere della vita? Perché ci manca la Pentecoste, il soffio di Dio che riempie i nostri vuoti, che soffoca con il suo alito i traumi che la vita inevitabilmente consegna. Buttiamo fuori, ma per riempirci di Lui. Pansy vorrebbe perfino la vita già finita e non riesce a vivere la ciclicità del respiro. Il verde del giardino le crea panico e la villetta di famiglia è maniacalmente pulita senza che nulla possa dirla, alla vista, abitata da una piccola fraternità. La sua non è una sacrosanta battaglia contro il disordine, ma il timore che un dettaglio – un pensiero sulle cose – possa sciogliere il ghiacciaio che è diventata la sua persona. Di questo suo deserto interiore che non accenna a placarsi incolpa la madre, morta ormai da cinque anni. Qui drammaturgicamente Leigh fa qualcosa di straordinario: non rivela mai cosa ha fatto la madre di Pansy per incamminarla verso una depressione così intensa. Anzi fa di peggio: oltre a non svelare questo dato che attendiamo tutto il tempo con curiosità, ci costringe a stare anche con una sorella che funziona proprio all’opposto. Sembra un maestro che con le sue parabole ci pone di fronte a due paesaggi umani: vogliamo tornare a respirare o vogliamo continuare a pesare senza soluzione di continuità i nostri mali? La domenica in cui ascoltare questo invito è già passata, ora tocca viverlo.