Ma tra un’elezione e l’altra al Paese bisogna dire prima o poi tutta la verità, non solo una parte, e assumersi la propria parte di responsabilità. Tra politiche, europee, regionali, comunali e referendum, siamo un Paese in perenne campagna elettorale. Forse è colpa anche del vizio di considerare ogni appuntamento con le urne come una prova politica decisiva per gli assetti politici complessivi. Paradossalmente il fenomeno si manifesta anche ora che a livello di governo nazionale la situazione è particolarmente stabile. O almeno così sembra, anche agli occhi delle opinioni pubbliche internazionali. Questo spiega in larga misura il buon andamento dello spread e il giudizio rasserenato dei mercati internazionali. Al governo va dato atto di essere riuscito a tenere i conti sostanzialmente in ordine, sia pure con l’incognita macroscopica del completamento del Pnrr e, ancora più in grande, delle ripercussioni di una situazione internazionale di cui nessuno tiene effettivamente le redini.
Ma tra un’elezione e l’altra al Paese bisogna dire prima o poi tutta la verità, non solo una parte, e assumersi la propria parte di responsabilità senza scaricare tutto sulle spalle dei predecessori. Prendiamo il dato sullo spread, vale a dire il maggior prezzo che i mercati sono disposti a pagare per comprare titoli di Stato considerati meno sicuri di quelli a tutt’oggi indicati come il punto di riferimento, vale a dire quelli tedeschi. E’ assolutamente vero che questo differenziale è sceso a livelli più sostenibili che in altri momenti, ma siamo sempre intorno a quota 100, un livello molto più elevato di quello scontato da Paesi come Francia e Spagna. Il nostro debito pubblico è tornato a livelli record nel mese di marzo, con 3.033 miliardi di euro, e se da un lato la ricomparsa dell’avanzo primario (la differenza positiva tra entrate e uscite al netto della spesa per interessi) ha fatto tirare un sospiro di sollievo al ministero dell’Economia, dall’altro il ribasso delle previsioni della Commissione europea sulla crescita italiana (+0,7% contro +1% nell’anno in corso, +0.9% contro 1,2% nel prossimo) rende il percorso futuro molto più incerto.
L’altro dato su cui il governo impernia la sua narrazione è quello del lavoro. Abbiamo un numero record di occupati rispetto al passato, su questo i numeri sono incontrovertibili. Ma i critici hanno giustamente richiamato l’attenzione sulla qualità di questa occupazione: è il tema cruciale del lavoro povero. E poi occhio ai confronti: siamo comunque all’ultimo posto nell’Unione europea per tasso di occupazione. Il dato più aggiornato è del 2023 ma per il futuro non è lecito farsi illusioni: per i giovani il divario negativo con la media Ue è ancora più ampio e così pure per le donne. E la stragrande maggioranza della quota di occupati in aumento è costituita da ultracinquantenni che non vanno in pensione anche per le regole previdenziali della legge Fornero. La bestia nera dei partiti dell’attuale maggioranza, per ironia della sorte.
Il recente rapporto annuale dell’Istat ha riproposto in modo ragionato i dati che l’Istituto snocciola quasi quotidianamente e che rappresentano la base ineludibile di gran parte delle analisi pubbliche. Non ci sono novità, ma proprio le conferme rendono bene l’idea di un Paese dotato di formidabili potenzialità che però non riescono a trovare uno sbocco sistematico e quindi non riescono a incidere sulle tendenze di fondo. L’esempio più eclatante è quello dell’andamento demografico, un problema grave per tutti i Paesi sviluppati ma che da noi assume caratteri drammatici per il sommarsi di livelli di longevità eccezionalmente alti e di livelli di natalità eccezionalmente bassi. “Oggi dobbiamo prepararci a un impatto inedito sulla società e non possiamo copiare dagli altri, perché da noi i dati sono più accentuati”, ha detto al Festival dell’economia di Trento il demografo Alessandro Rosina.