Fatti
L’approvazione parlamentare della riforma dell’ordinamento della magistratura, nota alle cronache come “separazione delle carriere”, segna il giro di boa della legislatura. Delle tre riforme istituzionali considerate strategiche dalla maggioranza – le altre sono il premierato e l’autonomia differenziata – va in porto quella che era in cima alle priorità di Forza Italia, un antico cavallo di battaglia berlusconiano che gli altri due partiti più grandi della coalizione di governo hanno adottato con convinzione via via crescente. Le occasioni di conflitto con la magistratura, del resto, non sono certo mancate e la strada di una modifica costituzionale è apparsa una risposta forte anche da parte di un soggetto politico come Fratelli d’Italia che pure tradizionalmente non si poneva in una posizione di contrasto con le toghe. Ma i tempi cambiano e il mondo visto dai palazzi del potere è assai diverso da quello osservato dai banchi dell’opposizione.
Perché la riforma diventi legge è comunque necessario superare la prova del referendum, che dovrebbe tenersi tra marzo e aprile. Sarà questa consultazione, ancor più delle pur rilevanti elezioni regionali, a dare il segno alla seconda parte della legislatura. E il merito della riforma rischia di finire decisamente in secondo piano rispetto alle conseguenze politiche del voto. Lo spettro della riforma costituzionale targata Renzi, la cui bocciatura costò il governo all’attuale leader di Italia Viva, ha spinto finora Giorgia Meloni a cercare di spoliticizzare il referendum, che non prevede quorum per la sua validità e quindi risulta particolarmente imprevedibile. Ma è un tentativo che più passa il tempo e più appare destinato al fallimento. Tanto più che la consultazione verrà richiesta non soltanto dalle opposizioni, quanto anche da spezzoni significativi della maggioranza che intendono cavalcare il tema sfidando gli avversari sul loro stesso terreno. Peraltro, in questi tre anni si è capito che la premier non ama tirarsi indietro nelle battaglie politiche, soprattutto sul piano interno, e che è sempre pronta a esporsi in prima persona. Che possa rimanere defilata di fronte a una prova di tale portata appare quindi assai improbabile. Tutt’al più potrà insistere sull’idea che un’eventuale sconfitta non comporterà automaticamente la fine dell’esperienza del suo governo. Automaticamente no, ma politicamente?
Anche la partita che giocano le opposizioni, comunque, è ad alto rischio. La riforma trova alcuni sostenitori tra le sue file e questo ovviamente depotenzia le critiche più radicali contro le nuove norme. Ma è proprio la strategia di dipingere la riforma come un attacco alla democrazia a presentare le maggiori insidie. Se nelle urne dovessero prevalere i favorevoli – e senza quorum, come si diceva, fare previsioni è molto arduo – quali conseguenze bisognerebbe trarne? Che gli italiani sono contro la democrazia? Più realisticamente l’esito sarebbe spianare la strada alla premier nelle elezioni del 2027, da cui uscirà il Parlamento che, tra l’altro, eleggerà il nuovo presidente della Repubblica.
Forse converrebbe a tutti una campagna referendaria senza eccessi propagandistici, ma fondata su una dialettica tanto vigorosa quanto razionale e argomentata. Lasciatecelo almeno sperare.