IdeeSabato pomeriggio, pieno clima di festività di fine/inizio anno, nell’affollato corso di Asiago c’è di tutto: turisti a cavallo tra piste innevate, primi saldi e bombardini; residenti che attendono di tirare il fiato dopo settimane di sacrosanto (e faticoso) lavoro; bambini che corrono, addobbi che colorano, mercatini che invogliano.
Capita di passare accanto a un tavolino dei numerosi plateatici che hanno definitivamente destagionalizzato a tutte le altitudini e venire fulminati da una serie di offese e minacce che un giovane maschio stava indirizzando a denti stretti e con viso duro e inespressivo a quella che poteva essere la sua fidanzata, la sua compagna, forse una giovane moglie, con in braccio un bambino di forse un anno. È così che la violenza irrompe anche nella quotidianità apparentemente più placida e ovattata. Nel mezzo delle feste, in un contesto di svago, in una giovane coppia benedetta dalla nascita di un bambino (oggi niente affatto scontata, per molte ragioni). Dobbiamo prenderne atto, viviamo in una società che non si è liberata di alcuni tra i suoi scheletri nell’armadio: maschilismo o, peggio, machismo, patriarcato, scarso rispetto dell’uomo sulla donna. In troppi tra noi maschi sono cresciuti in un ambiente in cui viene permesso loro di pensare che sottostimare la donna, non riconoscerla nelle sue (smisurate) qualità e nelle sue aspirazioni sia in fondo normale. Su tutto questo pesa anche la continua delega che molti genitori compiono (non sempre consapevolmente) sull’educazione alla sessualità e all’affettività dei giovani maschi: a minare una relazione, trascinandola talvolta sul piano inclinato della violenza, è proprio la fatica a impostare un rapporto alla pari, basato sul rispetto; finiscono per prevalere gli impulsi, l’utilizzo del corpo della ragazza o della donna per assolvere ai propri bisogni sessuali, nella piena incapacità di viverli con equilibrio e in un percorso che porti sempre più verso la maturità. Sconvolge il caso di Gisèle Pelicot, la donna francese sedata e stuprata dal marito e da decine di altri uomini. Molto si è dibattuto sulle sentenze di ergastolo a carico degli uccisori di Giulia Cecchettin e Giulia Tramontano. Eppure tutto questo rappresenta solo un enorme campanello d’allarme. Non possiamo farci abbagliare dal lieve calo che si è registrato nel 2024 sui numeri di femminicidio: anche lo scorso anno infatti una donna è stata uccisa ogni tre giorni (109 il totale) e di queste ben 95 in ambito familiare o affettivo, 59 direttamente per mano del partner o dell’ex. Non possiamo cullarci nei pensieri che aver parlato molto più di prima di temi come questo, o aver visto dedicata a Giulia una fondazione o un’aula universitaria, possa bastare. Possiamo recriminare sulle leggi, che dimostrano di non incidere troppo nell’abbattere il numero dei reati. Possiamo anche chiederci perché nel corso dell’anno passato almeno in tre casi il braccialetto elettronico non ha funzionato. In realtà, dobbiamo compiere un esame di coscienza personale e sociale: che cosa noi abbiamo fatto per migliorare questa situazione in termini concreti? Penso anche solo a come ci siamo rivolti a un’altra persona, a quanto valore indichiamo al rispetto e al benessere altrui in relazione ai nostri interessi o bisogni. Per tornare all’episodio con cui ho aperto, mi chiedo perché io stesso non mi sono fermato a chiedere conto di tale comportamento a quel giovane maschio (non ho scritto uomo) seduto a un tavolino del bar. La proverbiale riservatezza veneta come il “non farsi gli affari degli altri” rappresentano oggi un comodo alibi: la consapevolezza impone di intervenire e non delegare ad altri il compito che il caso (?) aveva imposto a me. Me ne rammarico. Mi consolo con lo sguardo incredulo ma al tempo stesso accigliato ed espressivo che aveva l’uomo del tavolino accanto, fissando negli occhi questo giovane. La sensibilità c’è, occorre renderla azione.
