Wissam Hamada è una mamma di Gaza city o di quel che sarà rimasto della città quando ormai il giornale sarà andato in stampa. Agghiacciante scriverlo, eppure le notizie che si susseguono ci obbligano a tenerne conto. La signora Hamada è rimasta soltanto con Eyas, suo figlio più piccolo di cinque anni. Il marito è disperso dal dicembre del 2023 e la figlia Hind di non ancora sei anni è mancata il 29 gennaio 2024 assieme a tutta la famiglia di zii e cugini nel tentativo di rifugiarsi all’ospedale battista Al Ahli. Hind è stata l’ultima a morire nella Kia nera dei parenti, rimanendo molte ore nascosta tra i loro corpi esanimi e appesa al telefono con i volontari della Mezzaluna Rossa, ai quali ha chiesto aiuto fino alla fine. La loro voce si intervallava a quella di Wissam, alla quale la bimba ha rivolto senza tregua l’imperativo di andarla a prendere.
Quanti “vienimi a prendere”, ai quali si obbedisce senza tentennamenti, sente un genitore in tutta una vita. Wissam non ha potuto farlo, abbia pace. Proviamo a stare in questa frustrazione reciproca tra la madre e la figlia anche soltanto qualche istante. Fino all’ultimo Wissam ha confidato che fossero gli operatori sanitari a riportargliela sana e salva tra le braccia. Sono, invece, 335 i proiettili che sono stati destinati all’auto degli zii. Anche i due operatori dei soccorsi, finalmente giunti nei pressi della bambina, vengono freddati nella loro ambulanza ritrovata tutta accartocciata. È l’ora del tramonto, scende il buio sulla terra, quel buio che tanto spaventa i più piccoli: all’improvviso tra gli spari si perdono i contatti con lei e anche con loro. Le loro voci tacciono, per sempre. Dopo ore al telefono i volontari della Mezzaluna stremati e devastati perdono le speranze. Silenzio.
La ricostruzione dell’accaduto e le spietate responsabilità si devono alle perseveranti inchieste giornalistiche del Washington Post; la narrazione emozionale ed empatica di quel pomeriggio è della sceneggiatrice e regista Kaouther Ben Hania che, con The voice of Hind Rajab, sarà in sala dal 25 settembre dopo la potente anteprima veneziana alla Mostra del cinema. La scelta, però, la dobbiamo a Wissam, ricordiamolo, ancor più della sollecitazione della regista. Se è pur vero che come madre dormirà per sempre sul cuscino che porta in sogno il desiderio di correre a prendere la sua bambina, dall’altra come madre avrà scelto di tenere in vita la vera voce di Hind a favore di tutti gli altri bambini che vivono la solitudine della devastazione della guerra, di prestarla imperitura alla memoria dell’arte, alla speranza della pietas. Perché sapere che il file audio delle conversazioni della figlia con la Mezzaluna Rossa era già di dominio pubblico, non mette a tacere tutti i dubbi sulla bontà o meno di farne una pietra incastonata nel film tutto ambientato negli interni dell’organizzazione umanitaria. Su questo punto c’era molta attesa tra la critica cinematografica per la paura di una strumentalizzazione in piena regola. Nel film tutto è, invece, dichiarato con precisione e Ben Hania non presta mai il fianco.
Certamente si tratta di scelte stilistiche, ma c’è qualcosa che trascende anche la poetica. Accettando la sorellanza con Kaouther (le due donne si sentono praticamente tutti i giorni), Wissan ha accolto infatti la possibilità di affrontare il trauma e il suo bisogno di guardare avanti per il bene del suo popolo. Gli attori che interpretano i volontari della Mezzaluna hanno dichiarato di aver vissuto un’esperienza alla fin fine «psicanalitica» partecipando a questa ricostruzione. È un sacrificio generativo che ci trascina tutti in questa via crucis, milioni e milioni di persone in tutto il mondo che si avvicineranno alla messa in scena (vivente) della regista tunisina, dove ciò che si sente supera ciò che si vede, perché irrappresentabile.
Un film, in definitiva, che corre tanti rischi ma che li oltrepassa anche tutti grazie alla fiducia di questa madre di poter convivere con quello che non ha potuto essere. Una madre che salva.
Evangelico.