Fatti
I primi saranno gli elettori delle Marche, chiamati alle urne già il 28 e il 29 settembre. Ma l’autunno del voto regionale mobiliterà anche gli elettori del Veneto, della Campania, della Puglia, della Toscana e della Valle d’Aosta, con l’aggiunta pochi giorni fa di quelli della Calabria, il cui presidente si è dimesso, ma si ricandiderà. Una mossa per giocare in contropiede rispetto alle indagini che hanno coinvolto la Regione. In tutto i cittadini direttamente interessati saranno oltre quindici milioni. Basterebbe questo dato numerico per attribuire un valore nazionale alla tornata. Gli specialisti che amano le analisi comparate hanno già da tempo tirato in ballo le midterm elections americane, l’appuntamento di metà mandato che attraverso il rinnovo delle assemblee rappresentative diventa una prova spesso decisiva per il futuro del Presidente in carica. Qui in Italia non si interviene sul Parlamento, ma su istituti ad alta caratura politica come le Regioni e l’effetto è analogo. Il potenziale impatto sul governo è tale che Giorgia Meloni ha cercato di diluirlo facendo in modo che non si creasse – tanto per continuare a fare gli anglofili – un election day e ogni Regione aprisse i seggi in date diverse. Il che, beninteso, è pienamente nella logica delle autonomie, ma si può star sicuri che in altri contesti si sarebbero evocate esigenze organizzative o di risparmio per concentrare il voto in un unico fine settimana.
Il rilievo nazionale del voto d’autunno si manifesta anche su un altro piano, quello della costruzione delle alleanze. E’ un tema che riguarda eminentemente il centro-sinistra (chiamiamolo così per semplicità) e si sviluppa soprattutto intorno alla possibilità di un accordo tra il Pd e il M5S, con il corollario della scelta della leadership della costruenda coalizione. In questa fase a livello locale, in prospettiva anche in chiave nazionale. Il discorso ha in radice una sua essenzialità: il centro-sinistra unito ha la possibilità non solo teorica di battere il centro-destra; se si presenta diviso il discorso è chiuso in partenza. Punto. Lo ha dimostrato in modo nitido e definitivo l’esito delle politiche del 2022. Di questa dinamica è ben consapevole anche l’attuale maggioranza. Non a caso la premier sta lavorando a una nuova legge elettorale che produca risultati simili a quelli del premierato e soprattutto renda ancora più ardua di quanto già non sia la strada dell’intesa tra Pd e M5S.
Un terzo motivo di riflessione è offerto dal rapporto tra le leadership nazionali dei partiti e le leadership locali, rappresentate soprattutto dai “governatori” uscenti o rientranti. Questi hanno acquisito, in virtù del loro incarico – una delle posizioni istituzionalmente più forti nel nostro ordinamento – e talora di indubbie capacità di governo, un consenso tale da relativizzare e addirittura sfidare il ruolo dei rispettivi partiti di provenienza e in particolare dei loro gruppi dirigenti. Una circostanza che da un lato esprime l’esistenza di un canale organizzato di formazione ed emersione delle leadership, dall’altro pone un problema di fondo sulla natura dei partiti e sul loro radicamento sociale.