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Mattia Lazzarin e la sua bici Teti: 11.600 chilometri lì, dove partono i migranti
Mattia e Teti hanno viaggiato insieme per 144 giorni percorrendo 11.600 chilometri.
Mattia e Teti hanno viaggiato insieme per 144 giorni percorrendo 11.600 chilometri.
Hanno attraversato 17 Stati toccando tutte le popolazioni che si affacciano sul mar Mediterraneo: dai Balcani al nord Africa fino alla Spagna. Strade d’asfalto e strade sterrate, per lo più percorsi minori, con qualche passaggio in autobus, in barca o in aereo, dove non avevano visti per transitare o dove era troppo pericoloso farlo. Lui è Mattia Lazzarin, quarantacinquenne nato a Battaglia Terme e ora residente e Monselice; Teti è la sua bici, in acciaio, due rapporti anteriori per le salite (ha affrontato 80 mila metri di dislivello complessivi), dotata di due borsoni da venti litri contenenti due magliette e altrettanti pantaloncini da ciclismo, una maglietta e un paio di pantaloni da svago, scarpette da bici e sandali, tenda, navigatore cartografico e gps, pannello solare e power bank per ricaricare cellulare e macchina fotografica, pezzi di ricambio per la bici e poco altro. Con questa minima dotazione Mattia Lazzarin – che non è un ciclista professionista – è partito il 1° luglio 2023 dall’Italia per fare ritorno il 21 novembre. Il perché di questo viaggio, organizzato in appena due mesi, lo ha raccontato sul suo profilo Instagram (@mattia_lazzarin_78) giorno per giorno e lo ha spiegato al pubblico per la prima volta in un incontro nella biblioteca del suo paese natale. «Sentivo che da un po’ di tempo la mia vita era diventata un trascinarsi. Lavoravo a turni, in piscina, negli alberghi, guadagnavo anche bene, ma non avevo più tempo per vivere. Davo tempo a cose che non servivano. Ho sentito che era ora di prendere del tempo per me». Mattia ha voluto percorrere le rotte, o meglio toccare i confini da cui partono i migranti, perché il dono del tempo che riceveva per sé – «tempo prezioso, giusto, sacro» – sentiva di doverlo donare anche agli altri. Nel suo viaggio ha conosciuto alcune associazioni, ha lavorato con loro e ora le sostiene tramite raccolte fondi che consegna direttamente nelle mani delle persone con cui è rimasto in contatto. Al suo progetto ha dato il nome “Beyond the sea”, al di là del mare, perché «siamo tutti da un lato del mare – spiega – Possiamo essere coloro che accolgono e possiamo essere migranti: si fa presto a passare da una vita normale a una vita d’inferno». Sono tante le vite d’inferno toccate con mano in quei 144 giorni che Mattia ha “aggiunto” alla sua vita, come ama dire. Un passaggio di frontiera in frontiera, a rischiare anche la vita filmando i campi profughi di Corinto e di Salonicco in Grecia, cogliendo con l’obiettivo – Mattia è un fotografo – i volti alienati delle persone in un silenzio irreale, dentro i container, nei 37 gradi della canicola estiva di un fazzoletto di terra recintato da un muro che soffoca ogni bava d’aria. «Le donne hanno storie di violenze continue, perpetrate durante il cammino e nella permanenza nei campi. Tanti bambini nascono lì dentro e vivono rinchiusi per anni. Qualcuno non si ricorda più nemmeno il suo nome. Un ragazzo del Camerun mi ha raccontato come hanno ucciso tutta la sua famiglia a colpi di machete, come se fosse la normalità, e io ho fatto una fatica tremenda a guardarlo negli occhi mentre lo fotografavo. Queste persone scappano dalla morte, camminano a braccetto con la morte e trovano la morte». In Tunisia, a Sfax, luogo delle partenze per Lampedusa, ha percepito nella maniera più forte il dramma di tante vite. «Pannolini, giacche, scarpe in mezzo al deserto. Barconi di ferro distrutti dalla polizia perché non possano più tornare in mare. Pattugliamenti continui della polizia da una parte, dei caporali dall’altra. Tutto è portato all’esasperazione. È un posto che mette i brividi, tanto più se pensiamo che a venti chilometri ci sono i turisti a godersi il sole nelle spiagge bianche e a divertirsi nei villaggi. I migranti invece camminano come automi, a loro interessa solo andare di là del mare». A Ceuta, città spagnola sulla punta dell’Africa, i campi contengono i migranti sub-sahariani: congolesi, camerunensi, sudanesi che sfuggono dalle guerre. I marocchini invece, che cercano solo una vita migliore, se intercettati vengono respinti e allora loro vivono per strada, si nascondono, fra un tentativo e l’altro di infilarsi nel cassone di un camion per essere traghettati di là. «In tutti i campi profughi non c’è scuola né accesso alla salute e non è dato sapere che cosa capiti dentro, perché tutte le associazioni sono state espulse – spiega Lazzarin – E allora i volontari operano all’esterno, curando le ferite, sopperendo con docce da campeggio alla carenza di igiene, procurando il latte per i bambini, perché il rancio del campo prevede un vassoio con il medesimo pasto per un adulto e per un bambino piccolo». Tra l’altro, Mattia è passato in Israele poco prima del 7 ottobre, giorno in cui si è scatenato l’inferno. «Ho corso accanto a chilometri di filo spinato e già si respirava molta tensione – ricorda – Nel deserto del Negev, in piena zona militare, ho viaggiato in mezzo a lanciarazzi e a carri armati che facevano esercitazioni». Da tempo, confida, alcuni amici non rispondono più ai suoi messaggi. Fra dolore e povertà, Mattia ha scoperto anche tanto buon cuore. «In Turchia un signore mi ha fermato mentre correvo per strada e mi ha offerto del tè – racconta – Un ragazzo mi ha rincorso in motorino per darmi una bottiglia d’acqua da due litri e un filone di pane. Nel deserto ho finito l’acqua e ho pensato davvero che fosse finita anche la mia vita, ma a un certo punto, in un campeggio sperduto, ho trovato una persona che mi ha offerto insalata e pomodori. Dove non arrivavo io, arrivava la Provvidenza. Ho alloggiato in tante famiglie, trovate tramite un’app, e ogni persona mi ha arricchito con i suoi gesti, con i suoi racconti, che ci siamo scambiati spesso con l’aiuto del traduttore del cellulare, perché pochissimi conoscono l’inglese. Adesso il mio compito è di applicare alla vita di tutti i giorni quanto ho ricevuto e imparato». Qualche disavventura comunque c’è stata: una coltellata al fianco rimediata durante un tentativo di rapina fuori da un ostello ad Atene; l’inseguimento di un branco di cani randagi in Turchia che l’hanno disarcionato dalla bici e morso a un ginocchio; un increscioso episodio con le autorità egiziane per cui se l’è vista davvero brutta. «Alla fine del viaggio mi sono fatto un’idea di questa parte di mondo, che non guardo a livello politico, ma che mi interpella da cristiano e semplicemente da essere umano: se qualcuno mi arriva in casa, chiunque sia, qualcosa devo dargli. Quel che ho glielo do, altrimenti lo procuro».
In autunno Mattia Lazzarin organizzerà una mostra con le foto scattate durante il viaggio, che saranno vendute per raccogliere fondi a favore di alcune organizzazioni di volontariato attive sulla rotta balcanica e mediterranea per curare, assistere e dare dignità alle persone migranti in prossimità dei campi e delle zone di confine: Qrt-Quick response team, Obti-One bridge to Idomeni, Vasilika moon, No name kitchen. Si può già donare sul sito www.gofundme. com/f/beyond-the-sea
Oltre il mare, le barriere fisiche e culturali: Mattia Lazzarin ha percorso il perimetro del Mediterraneo incontrando rifugiati e profughi in Croazia, Montenegro, Albania, Grecia, Turchia, Palestina, Egitto, Algeria, Tunisia, Marocco, Spagna, Francia.