Fatti
Meno pane sulle tavole, ma vince la qualità
Che ne sarà del pane artigianale, in Italia? Sono in calo i consumi, come certifica l’analisi di Coldiretti riportata a fondo pagina, ma sono in calo anche i forni e i fornai.
Che ne sarà del pane artigianale, in Italia? Sono in calo i consumi, come certifica l’analisi di Coldiretti riportata a fondo pagina, ma sono in calo anche i forni e i fornai.
Eppure mai come oggi c’è una varietà di prodotti, di farine, di specialità: alcune di quelle tradizionali, però, sono a rischio per la diminuzione di richiesta o di panettieri in grado di farle. «Alcuni tipi di pane sono realmente in calo – racconta Alessandro Cella, presidente regionale dei panificatori di Confartigianato e titolare di un forno a Torre di Mosto (Venezia) – penso ad esempio alla michetta e alla soffiata milanesi, che richiedono tempo e capacità: sono pochissimi i forni che le fanno ancora. Nel Veneto abbiamo recuperato pani come la ciabatta polesana, mentre stanno scomparendo pani come il montasù: erano prodotti nati per palati che erano avvezzi a mangiare polenta, che nel dopoguerra davano continuità a quel tipo di gusto e consistenza. Oggi le cose sono cambiate». Il calo dei consumi c’è davvero? «Sicuramente sì, anche se contestualmente c’è stata la chiusura di molti forni, almeno il venti per cento, e spesso quelli rimasti hanno compensato le perdite con i clienti di chi ha chiuso. Il costo dell’energia ha fatto aumentare i prezzi, ma se in linea di massima oggi la popolazione mangia meno pane è perché è più anziana o fa lavori sedentari che richiedono meno cibo: avevo clienti che mangiavano da soli sette etti di pane in un giorno; ora, per capirsi, la capienza del sacchetto medio è passata da 22 a 14 centimetri. E poi, chi ha fame oggi trova tante alternative, anche per uno spuntino». C’è anche una questione di dieta e di attenzione alla salute? «La pandemia è stata una sorta di spartiacque: dopo il Covid, ma direi già dopo l’Expo del 2015, c’è una fascia di clienti più sensibile e informata, che sa quello che vuole e cerca la qualità, è consapevole che ciò che mangia influisce sullo stato di salute ed è disposta a pagare un euro in più. È il cliente più fidelizzato. Se il nostro pane, rispetto a quello industriale, è vecchio dopo un paio di giorni, è perché non ha additivi né conservanti. Altro esempio: noi dobbiamo ancora iniziare a fare i panettoni, che dopo un mese cominciano a seccare, quelli industriali sono nei supermercati già da tempo. È grazie alla chimica che durano tanto». Cosa è cambiato nel modo di fare il pane? «Posso parlare solo per il pane degli artigiani: è aumentata la qualità. Ad esempio, non c’è quasi più nessuno che usa la farina doppio 0, troppo raffinata e che si fatica a digerire: noi usiamo quelle meno raffinate, dallo 0 alla 2, più digeribili perché integrali o semintegrali, che sono alla base della dieta mediterranea e contengono fibre. Sono però più costose perché hanno procedimenti diversi e si fanno in limitata quantità. I consumatori lo stanno scoprendo: un panificio che lavora sulla qualità, oggi, non chiude facilmente». C’è nel settore un problema di ricambio generazionale? «Vi sono aree in cui i nuovi fornai sono quasi tutti stranieri. Nel Veneto la panificazione è stata sempre una tradizione di famiglia che finora ha resistito. Il problema è il futuro: tra dieci anni chi lo farà, il pane artigianale? Una volta nei paesi tra i cinque e i dieci mila abitanti c’erano anche tre forni, la prospettiva è che ve ne sarà uno ogni tre paesi e il resto saranno rivendite».
Il pane preferito dagli italiani continua a essere quello artigianale, che rappresenta l’84 per cento del mercato. Ma, come sottolinea Coldiretti, è cambiata la pezzatura più gettonata che, in dieci anni, è passata da 1,5 chili a un solo chilogrammo. La spesa familiare in Italia per il solo pane ammonta a circa 6,7 miliardi di euro all’anno.