Chiesa
Sono stati giorni intensi, a tratti commoventi, quelli dei vescovi lombardi in pellegrinaggio in Terra Santa dal 27 al 30 ottobre. Durante i quali si sono alternati momenti di silenzio e preghiera nei luoghi segnati dalla vita di Gesù (Natività, Orto degli ulivi, Santo sepolcro) a incontri con diverse realtà locali, fra cui i beduini nel deserto (con una scuola materna e un laboratorio di cucito per le donne tenuti da suore comboniane), l’Istituto Effatà per bambini audiolesi voluto a suo tempo da Papa Paolo VI. Ancora: i Parents Circle (genitori ebrei e palestinesi con figli vittime dell’interminabile conflitto), il villaggio cristiano di Tayibe in Cisgiordania, circondato da coloni ebrei… E poi gli appuntamenti con il vicario custodiale fra Ulises Zarza, con i frati francescani della Custodia, con il sindaco di Betlemme Maher Nicola Canawati, con il patriarca di Gerusalemme card. Pierbattista Pizzaballa. Tracciamo un bilancio del pellegrinaggio con l’arcivescovo di Milano, mons. Mario Delpini.
Inquietudine, dimora e annuncio: sono le tre parole sulle quali si è soffermato durante l’omelia nella messa al Santo Sepolcro. Possiamo riprendere questi termini?
Da Gesù risorto ci deriva anzitutto una inquietudine, perché la risurrezione di Gesù non rappresenta un’evidenza, ma la vocazione a una fiducia, la disponibilità alla Parola. Inquietudine che deriva dal fatto che noi stessi siamo uomini in ricerca di una profonda comprensione delle Scritture e del mistero che si celebra a Pasqua. Una continua necessità di confronto, domande, ascolto, contemplazione… La dimora, poi, è la grazia di essere con Gesù, sperimentando che la resurrezione non è un fatto da narrare ma una relazione da stabilire: noi dimoriamo in Gesù. E l’annuncio significa la responsabilità che abbiamo di dire che la morte è stata vinta, che c’è una speranza di una vita nuova, una vocazione alla fraternità, guardando oltre a ciò che è male e peccato e così sperare nella salvezza. Ora, queste tre parole, in questa terra e in questo particolare momento mi sembrano particolarmente impegnative.
Perché?
Perché questa terra non è attraversata dall’inquietudine: nel senso che anziché mettersi in ricerca, in ascolto reciproco e dialogare, qui si affermano perentoriamente punti di vista destinati a scontrarsi. Dimora, in questa terra in cui tutti si sentono minacciati, sembra essere termine impronunciabile. Dire annuncio significa desiderio di condividere, di portare una verità che ci illumina, in un contesto in cui però nessuno pare lo voglia raccogliere. Noi siamo stati in Terra Santa per rivelare la nostra inadeguatezza, la missione ricevuta e trovare consolazione dal fatto che proprio lì ci sono dei cristiani, proprio lì si vive il dimorare in Gesù e si testimonia la Pasqua, si ascolta la parola della risurrezione come un invito a conversione.
I giorni in Terra Santa sono stati per l’arcivescovo di Milano e per la Conferenza episcopale lombarda giorni di preghiera, di incontri, di solidarietà e di speranza: è stato questo il senso complessivo del vostro pellegrinare?
L’intenzione originaria del pellegrinaggio è stata quella di andare a portare ai cristiani in Terra Santa la nostra vicinanza. E questo è stato molto apprezzato e riconosciuto. Come per dire: “Se voi venite qui, se convincete altri a venire in pellegrinaggio, allora noi abbiamo una ragione per restare, nonostante le condizioni così difficili in cui ci troviamo”. Questa la prima intenzione, naturalmente in un contesto di preghiera perché i pellegrini non vengono soltanto a visitare o ad aggiornarsi sulla situazione, ma a trovare un luogo santo e un motivo per santificarsi. Poi va detto che gli incontri sono stati numerosi, impegnativi e incisivi, e perciò noi abbiamo portato a casa un patrimonio di testimonianze, la gioia di vedere la dedizione senza risparmio di persone che qui si dedicano ai poveri e alle loro varie necessità. Abbiamo visto passi di riconciliazione che dentro il mondo ebraico e musulmano sono tentati da donne e uomini di buona volontà.
Dei tanti incontri vissuti ce n’è uno che l’ha colpita in modo particolare?Certamente. Il primo è quello in cui abbiamo conosciuto un padre ebreo la cui figlia di 15 anni è stata uccisa in un attentato, e un papà musulmano la cui figlio di 10 anni è stata uccisa da un soldato. Questi padri di fronte al dramma della morte di un figlio hanno, ciascuno per conto suo, considerato cosa avrebbero dovuto fare: reagendo all’istinto immediato della vendetta, hanno pensato vie per rendere desiderabile continuare a vivere e così si sono conosciuti, sono diventati amici dando vita a un gruppo di parenti di vittime del conflitto. È stato un incontro davvero impressionante per dire che la guerra è una pazzia, mentre la speranza è soltanto nel perdono e nell’amicizia, considerandosi semplicemente esseri umani.
E un altro incontro che l’ha segnata?
Un altro incontro singolare è stato quello con la comunità dei cristiani di lingua ebraica. Una piccola comunità che parla e celebra in ebraico, che viene guardata dagli ebrei come una forma di provocazione; viene guardata dai palestinesi e dal resto del mondo come una realtà impossibile. Impossibile – si pensa – che ci possano essere cristiani che parlano in ebraico. Eppure, loro accolgono, pregano e desiderano non essere ignorati.
Come vescovi cosa portate a casa da questo pellegrinaggio? Quale messaggio intendete trasmettere ai fedeli delle diocesi lombarde?
La parola che spesso ci è stata ripetuta e che dunque portiamo a casa è l’apprezzamento per la nostra presenza. È stato ritenuto un gesto significativo che i vescovi della Lombardia abbiano incontrato questo popolo e questa Chiesa. “Grazie perché siete qui, grazie perché ci date la convinzione di non essere abbandonati, perché aprite la strada ai pellegrini” che, come si spera, torneranno a popolare e a dare vita ai luoghi santi. Insieme abbiamo registrato invocazioni di solidarietà: come si sostiene l’opera educativa e sociale in mezzo ai beduini? Come si può proseguire l’assistenza ai bambini audiolesi? La risposta è: “Queste opere esistono e vanno avanti perché voi ci aiutate”. Quindi c’è un impegno di solidarietà che non sia solo un momento emotivo ma diventi una collaborazione costante.