Fatti
Moria, voci dall’inferno
Nell’isola di Lesbo, il calendario non scandisce l’avvento. Un giorno dopo l’altro, nel campo profughi di Moria è un inferno di disperazione. Ernesto Milanesi è arrivato a destinazione: primo giorno.
FattiNell’isola di Lesbo, il calendario non scandisce l’avvento. Un giorno dopo l’altro, nel campo profughi di Moria è un inferno di disperazione. Ernesto Milanesi è arrivato a destinazione: primo giorno.
La struttura originale era calibrata per accogliere 3 mila persone. L’ultimo “censimento” ne conta circa 17 mila: un terzo sono donne, come i minori spesso non accompagnati.
Giannis Balpakakis, ufficiale in pensione, a settembre si è dimesso dall’incarico di direttore dell’hub che ricopriva fin dal 2016: «I flussi migratori negli ultimi mesi sono aumentati. Qui si deve dare l’anima. Per cercare di aiutare tutti. E occorre prendersi cura delle persone con cui si lavora. Se i tuoi colleghi crollano psicologicamente, l’intero sistema va a rotoli…».
Le condizioni di vita per i rifugiati sono riassunte dalla… cronaca nera. Ad agosto, un ragazzino è stato pugnalato a morte. A settembre, un bambino di 5 anni giocava fuori dal campo ed è stato travolto da un camion in manovra. A dicembre, si è incendiato un container nel campo di Kara Tepe: il vero bilancio delle vittime resta ignoto.
Lo si legge negli occhi delle ragazze afgane che faticano ad allontanarsi dalle loro tende, nonostante tutto. Una minorenne irachena, che ha già tentato il suicidio, dorme con un rudimentale coltello a portata di mano. Donne e bambini sono, come sempre, le principali vittime dell’inferno di Moria. Storie di quotidiana disperazione.

Una mamma racconta: «La mia bambina ha avuto vomito e diarrea per tre giorni. E non potevo fare nulla: in un solo giorno, ho dovuto portarla 14 volte in bagno e ogni volta dieci minuti di coda. Poi in coda per farla visitare dal medico. Non avevo i 2 euro per il bus, me li hanno prestati per poterla portare all’ospedale in città. Ora sta meglio, ma continuo a piangere: l’ho messa al mondo, ma adesso qui non posso darle niente».
La geopolitica dell’emigrazione, a Lesbo, segnala i perseguitati nei conflitti periferici. Come gli afghani di etnia hazara che si sono organizzati in una specie di comunità. Molti i siriani fuggiti dalla guerra civile, ma senza poter superare il “muro d’acqua” che li separa dall’Europa. Crescono anche i profughi dell’Africa, in particolare quelli in fuga dalla Somalia.
E i numeri ridimensionano la propaganda sguaiata di casa nostra. Se nei primi 11 mesi del 2018 erano sbarcati nelle coste del Vecchio Continente 131 mila persone, quest’anno si sono ridotti a 112. Ma ben 67 mila, cioè più della metà, sono arrivati in Grecia. In Spagna altri 30 mila. L’Italia? Ferma a 11 mila. Fra Malta e Cipro, non si arriva a 4 mila.

Il campo profughi di Moria non rientra nelle priorità dei media, anche se continua a rappresentare la vergogna dell’Unione Europea. Tuttavia la solidarietà attiva continua lungo rotte diversissime, come quelle tracciate da Melting Pot Europa che sta preparando a gennaio una “spedizione” di giovani e l’arrivo dei furgoni con i generi di prima necessità in vista dell’inverno.
Recentemente, è arrivato Alessio Boni che nella clinica pediatrica di Medici senza frontiere ha condiviso la giornata di Aida, 9 anni, arrivata semi-incosciente per la febbre e dimessa dopo le cure necessarie. «Qui farà freddo e pioverà. Immaginate i fiumi di acqua e fango che entrano dentro le tende, con i bambini e gli anziani malati. Tutto a poche migliaia di chilometri da casa nostra… » testimonia in un video l’attore.
All’inizio di dicembre è ritornato a Lesbo anche il cardinale Konrad Krajewski, elemosiniere apostolico. Un sorriso, una stretta di mano, un rosario di Papa Francesco, un piccolo contributo alle mamme con bambini piccoli, incontrati anche al centro della ong Team Humanity, che ha iniziato la distribuzione di giacche e cappotti.