Idee
Il 3 novembre a Padova si è tornati a parlare di una pagina oscura della storia del nostro Paese, quella del colonialismo italiano. È successo in Piazza delle Erbe, proprio sotto la mappa, incisa su muro, del cosiddetto “Impero italiano” e inaugurata dal regime fascista. A riportare il tema al centro dell’attenzione è stato il gruppo informale Officina non violenta, nato nel 2024 come spazio di autoformazione e impegno civile per la pace, che ha deciso di organizzare un momento in cui chiedere simbolicamente scusa ai rappresentanti delle comunità padovane che provengono dagli Stati colonizzati, tra cui quelle somala, etiope e albanese. Giorgio Romagnoni, membro del gruppo e promotore dell’iniziativa, commenta così il significato attuale di queste scuse: «Viviamo in un’epoca di conflitti e per far sì che si avviino dei processi di pace dobbiamo metterci in discussione. Chiedendo scusa ai rappresentanti di queste comunità, facciamo anche un gesto verso noi stessi, ci rendiamo conto che il nostro passato e la nostra identità italiana hanno delle ombre. Solo così possiamo immaginarci come cittadini adulti che possano creare spazi per rielaborare il male che sentiamo. Perché le guerre in corso oggi sono delle ferite che ci portiamo nella nostra quotidianità».
Tra i rappresentanti delle comunità presenti c’era Cadigia Hassan, attivista e mediatrice interculturale italo-somala, ex-giornalista, che ha vissuto i primi anni della sua vita a Mogadiscio, nel 2007 è stata nominata ambasciatrice di pace dalla Women’s Federation for World Peace e oggi si occupa di mediazione interculturale.
Secondo lei, in Italia esiste una consapevolezza diffusa sulla storia coloniale del Paese?
«Purtroppo, e volutamente, l’Italia ha cercato di dimenticare il proprio passato di espansione coloniale, relegandolo a poche righe di testo nei nostri libri scolastici. Dalla Convenzione di Assab del 1868 al 1960, anno in cui è cessata l’amministrazione fiduciaria italiana della Somalia, l’Italia ha perpetrato massacri e sottomesso le popolazioni di Eritrea, Etiopia, Libia e Somalia. Azioni che sono state rimosse dalla memoria collettiva, conseguenza di una deresponsabilizzazione che tutt’oggi lascia ferite ancora aperte sui corpi e sui destini di migliaia di persone, siano esse in madrepatria o sparse nei territori della diaspora».
Come si è sentita durante l’iniziativa di scuse organizzata da Officina non violenta?
«È stato un atto simbolico di forte valenza decoloniale, una presa di coscienza dal basso. Decolonizzare significa anche questo: risignificare la storia, decostruendo la narrazione mainstream portata avanti da chi la storia la scrive perché parte integrante della propaganda dei vincitori e portando avanti una contro-narrazione fatta di voci inascoltate».
Qual è stato il messaggio che lei, sulla base della sua esperienza, ha voluto trasmettere?
«Essendo molto sensibile alla tematica della violenza di genere, ho voluto in particolare focalizzare l’attenzione sugli atti di violenza compiuti dagli italiani sulle donne delle colonie. Il corpo delle donne come terra di conquista da penetrare, violare, dominare. Ho parlato della pratica del madamato (relazione temporanea tra soldati italiani e donne indigene, ndr) e della nascita di migliaia di bambini “meticci” abbandonati in quanto “frutto della vergogna” e insulto alla “purezza della razza italiana”, doppiamente stigmatizzati da entrambe le loro discendenze».
Quale crede sia l’importanza di ricordare ancora oggi cosa sia stato il colonialismo italiano?
«Serve per prendere una posizione chiara, riscrivere i testi di storia, raccontare cosa è effettivamente accaduto. È necessario descrivere i gas nervini utilizzati sulla popolazione inerme in Etiopia, ammettere come il colonialismo non abbia cessato i suoi effetti, ma sia strettamente correlato ai forti flussi migratori degli ultimi decenni. Dobbiamo citare il numero dei morti nelle battaglie di Adua, Amba Aradam, Amba Alagi, Tembien, Lago Ascianghi. Questi sono nomi di alcune vie della nostra Padova, che commemorano i fasti dell’ex impero coloniale, che devono essere risignificate partendo da un cambio di paradigma».