L’olio extravergine di oliva italiano è sempre il più buono ma rischia di essere sorpassato sui mercati mondiali. Non si tratta di qualità in discesa, ma di quantità non sufficiente. E di alcuni altri problemi che complicano sempre di più la vita degli olivicoltori.
Del tema si è parlato recentemente nel corso di una riunione, al ministero dell’agricoltura, dedicata al cosiddetto Piano olivicolo che dovrebbe aiutare il comparto a risollevarsi dai colpi del clima da una parte e, dall’altra, delle malattie prima tra tutte la Xylella che ha falcidiato effettivamente le coltivazioni in buona parte delle aree più specializzate.
Olio extravergine di oliva italiano, dunque, comunque sempre in cima alle vette in quanto a qualità, ma non sufficiente per soddisfare il mercato, prima di tutto quello interno. Problema serio per un prodotto che fa della sua origine un vanto. Problema che si sintetizza in una constatazione: l’Italia non è più autosufficiente circa gli approvvigionamenti. Coldiretti e Unaprol (che rappresenta la gran parte degli olivicoltori italiani), non hanno dubbi: alla base della situazione sono gli effetti dei cambiamenti climatici, che hanno ridotto le giacenze di prodotto del 35% rispetto alla media quinquennale. Oltre al clima avverso, tuttavia, c’è anche dell’altro come il rinvigorirsi della concorrenza internazionale e l’aumento della concorrenza sleale. La soluzione è semplice a dirsi e piuttosto complessa a farsi. “Per salvare l’autosufficienza produttiva dell’Italia e garantire olio extravergine d’oliva buono e sostenibile sugli scaffali – dicono i produttori – è importante raggiungere l’obiettivo di aumentare del 25% le piante di ulivo entro i prossimi 7-10 anni”. Oltre a questo, è necessario accelerare il percorso verso una completa tracciabilità del prodotto a livello europeo, intensificare la lotta alla Xylella e contro le pratiche di mercato sleali, ma anche assicurare risorse idriche sufficienti alle coltivazioni. I produttori poi non si nascondono altre questioni che iniziano a pesare come l’eccessiva frammentazione aziendale e la volatilità dei prezzi.
Più organizzazione, quindi, ma anche più tecnica produttiva che, per esempio, passa anche dal recupero degli oliveti abbandonati, dall’espianto degli alberi ormai troppo vecchi e dal reimpianto con varietà italiane adatte alla meccanizzazione, con impianti intensivi e superintensivi in aree idonee e misure dedicate al ringiovanimento degli oliveti tradizionali ed “eroici”. Azioni che costano non solo impegno ma anche risorse finanziarie. Per questo, sempre i coltivatori hanno chiesto uno stanziamento di 40 milioni di euro destinati alla ristrutturazione degli impianti. Aziende più grandi, meglio attrezzate e magari condotte da agricoltori più giovani, paiono essere gli strumenti migliori per far riprendere al comparto una crescita adeguata. Una prospettiva che potrebbe meglio concretizzarsi, è stato fatto notare nel corso dell’incontro al tavolo del governo, anche con un più facile accesso al credito così come con una formazione adeguata.
Tutto senza dire delle relazioni internazionali che proprio sull’olio di oliva hanno un peso notevole. Il principio della reciprocità è richiamato con forza da tutti i produttori. “Occorre garantire – dicono gli olivicoltori – che dietro il prodotto importato, a partire da quello tunisino, ci sia il rispetto delle stesse regole che valgono per le aziende italiane, dall’utilizzo delle sostanze fitosanitarie fino alla tutela dei diritti dei lavoratori, con una rete agricola realmente di qualità”.
Olio di oliva al pari dei grandi cereali che costituiscono le commodities per eccellenza? Forse non proprio, ma non c’è dubbio che il destino dell’olivicoltura italiana sia legato non solo al cambiamento climatico ma anche a molta tecnica e ad accordi commerciali severi e rispettati.