Mosaico
Un cammino nel verde non è solo tra le montagne della villeggiatura, ma anche tra quelle appena fuori casa, a pochi chilometri dal nostro portone e che per trascuratezza (o perché si cerca sempre altrove il tesoro che abbiamo in mano) avevamo ignorato. C’è un libro che ci aiuta a capire quanto fascino conservino le nostre montagne: “La Pietra lunare” (1939) di uno dei più grandi scrittori italiani del Novecento, Tommaso Landolfi. Nelle montagne attorno a Pico, il paese natale dello scrittore, si svolge una specie di rito iniziatorio, in cui è una fanciulla a rivelare al protagonista la sua appartenenza alla natura incontaminata, guidandolo nei boschi alla ricerca dell’incontro con la grande madre. Un cammino che sembrerebbe da fiaba, se non fosse per quell’avviso nascosto nelle pagine, che ci invita a riscoprire la bellezza dei nostri luoghi, con l’umiltà dei figli che ritrovano le radici materne della natura minacciata da un presunto progresso che ne sta invece cancellando le tracce.
Se avete visto il film di James Mangold su Bob Dylan, “A complete unknown,” e vi ha catturato l’atmosfera della canzone di protesta, e anche quella di ispirazione religiosa, allora vi consiglierei la lettura delle poesie di Robert Zimmerman, questo il suo vero nome. Le trovate in varie edizioni, tra cui quella ormai classica della Newton Compton, “Bob Dylan. Blues, ballate e canzoni”; leggendole vi renderete conto del labile, per alcuni inesistente, confine tra canzone e poesia e dei richiami biblici in molte di quelle liriche. Non solo la celeberrima “Blowing in the wind”, 1962, ma anche la profetica “Masters of war”, che oltre a denunciare profeticamente il rischio di uno sterminio globale, faceva riferimento proprio a quella religione che i Signori della guerra strumentalizzavano per i loro fini: “ma c’è una cosa che so/ anche se sono più giovane di voi/ che perfino Gesù non perdonerebbe/ quello che fate”. Senza ignorare una delle più belle canzoni del Novecento, quel “Campane della libertà” in cui emerge lo struggente, evangelico canto degli ultimi: i fulmini sulla città tentacolare suonano “per il ribelle/ suonano per il miserabile/ suonano per lo sfortunato/ l’abbandonato il rifiutato/ per l’escluso/ costantemente bruciato al rogo”. I miseri della città, che dormono nei sotterranei o vicino ai negozi con le serrande abbassate hanno trovato la loro dolente voce.
E per rimanere nel tema dei poveri dimenticati, Jack London è la prova che la letteratura talvolta si ricorda di loro, perché il suo “Il popolo degli abissi” sembra andare in senso ostinatamente contrario al mondo delle avventure di Martin Eden o Zanna Bianca. Nel 1902 London se ne va nella zona più povera di Londra, in una stamberga, a condividere la fame, il vagabondaggio, a fare i conti con la prostituzione e l’alcolismo degli ultimi della terra. A chi lo tacciava di superomismo alla Nietzsche, e quindi di inimicizia verso la fratellanza predicata da Cristo, lo scrittore avventuriero rispose ponendo all’inizio del libro una poesia dello scrittore e politico americano James Russel Lowell: “Allora Cristo trovò un artigiano,/ un uomo rozzo, macilento e storpio,/ e una ragazza senza madre dalle dita esili/schiacciate dal bisogno e dal peccato./ Pose queste persone in mezzo a loro (i benpensanti, ndr) / e mentre questi si tiravano indietro/per non essere contaminati, ‘Ecco, disse/ le immagini di me che avete creato’”.
Come vedi, caro lettore, le cose non sono mai come uno sguardo superficiale farebbe pensare, anzi, non-pensare. L’esempio di Cristo all’inizio del racconto di un presunto superomista-anarchico-darwinista lo dimostra in pieno. Leggiamo in profondità, invece di precipitare nel circuito del si-dice-che.