Chiesa | MondoDodici anni “riassunti” tra due benedizioni: quella che ha chiesto ai fedeli il giorno dell’elezione e quella che ha dato al mondo il 20 aprile scorso, domenica di Pasqua
Nei giorni nei quali la Chiesa celebra la definitiva vittoria di Gesù sulla morte e l’apertura della strada verso la vita piena che ogni essere umano è invitato, nella fede, a percorrere, la morte di papa Francesco ha assunto una particolare tonalità “pasquale”, intendendo la Pasqua proprio come “passaggio”. Assieme al cordoglio e alla gratitudine per il dono che in lui Dio ha fatto alla Chiesa e al mondo intero, si moltiplicano ora i commenti e le interpretazioni, da punti di vista diversi, dei dodici anni del suo pontificato. Anche nel caso di papa Francesco ci vorrà tuttavia del tempo per comprendere adeguatamente ciò che egli stato per la Chiesa cattolica, per le altre Chiese cristiane, per gli appartenenti ad altre religioni e per tante persone che, senza riconoscersi in una particolare religione, lo hanno osservato, ascoltato, ammirato ma anche, non di rado, criticato. Non dovrebbe essere difficile riconoscere in Francesco un pastore fedele, capace di incarnare quel triplice atteggiamento nei confronti del santo popolo di Dio al quale spesso ha fatto riferimento: stare dietro, davanti, in mezzo. Mi sembra abbia colto nel segno quello che, a pochi minuti dalla comunicazione della triste notizia della morte, mi ha scritto una collega e amica teologa: «Le ultime parole: la benedizione dal balcone. La benedizione che aveva chiesto al popolo alla sua elezione la ha ridata al mondo». Tra la benedizione ricevuta il 13 marzo 2013 e quella data il 20 aprile 2025 c’è un cammino di Chiesa nel corso del quale papa Francesco, come i suoi predecessori ma con uno stile e con accenti nuovi, ci ha costantemente richiamato al Vangelo, scuola di misericordia e sorgente di speranza. Ci ha ricordato che la gioia che è data a chi accoglie nella fede il Vangelo di Gesù Cristo non può essere tenuta per sé: va condivisa, impegnandosi a far sì che tanti e tante abbiano la possibilità di farne esperienza. Tra la benedizione ricevuta e la benedizione data ci sono stati gesti, parole, insegnamenti, incontri. I gesti hanno avuto grande impatto e sono già impressi nella memoria di tanti. Le parole uscivano dalla sua bocca con un’immediatezza e una spontaneità che sembrava strana a chi era abituato a linguaggi papali più misurati. Eppure, non sarebbe corretto mettere in secondo piano gli insegnamenti offerti da papa Francesco. Diciamo pure: la sua “dottrina”. Certo, in più occasioni ha invitato a non considerare la fede cristiana un sistema dottrinale rigidamente chiuso in se stesso. C’è chi ha voluto vedere in questo una presa di distanza dalle tradizionali forme di insegnamento papale, apprezzandolo o criticandolo senza mezzi termini. In realtà Francesco consegna alla Chiesa e all’umanità un insieme tutt’altro che disorganico di insegnamenti. Basti pensare all’esortazione apostolica programmatica Evangelii gaudium (2013), alle sue quattro encicliche: Lumen fidei (2013), Laudato si’ (2015), Fratelli tutti (2020), Dilexit nos (2024), ad altre esortazioni apostoliche, come Amoris laetitia (2016), Querida Amazonia (2020), Laudate Deum (2023). C’è una diretta corrispondenza fra la comprensione dei contenuti della fede cristiana espressa in questi testi e i gesti che hanno accompagnato i dodici anni del ministero di Jorge Mario Bergoglio come vescovo di Roma, successore di Pietro e, in quanto tale «perpetuo e visibile principio e fondamento dell’unità sia dei vescovi sia della moltitudine dei fedeli» (Lumen gentium, 23). Francesco ha saputo riproporre il Vangelo, rispondendo alle complesse esigenze del “cambiamento d’epoca”. Ha rilanciato alcuni importanti insegnamenti del Concilio ecumenico Vaticano II, riprendendo in particolare la prospettiva della costituzione dogmatica Lumen gentium sulla Chiesa come “popolo di Dio”. Prima di ogni distinzione legata ai diversi carismi, ai compiti, alle diverse forme di ministero c’è la comune appartenenza, grazie al battesimo, al «santo fedele popolo di Dio», come amava dire. Tutti sono chiamati a essere “discepoli missionari”, in modi diversi ma nella condivisa missione di testimonianza da rendere, nei tanti modi in cui questo è possibile, alla vita nuova donata da Cristo tramite lo Spirito Santo.
«Dall’estate 2023 fino allo scorso gennaio – racconta don Battocchio – ho avuto occasione di incontrare papa Francesco con una certa regolarità, essendo stato chiamato da lui a collaborare all’Assemblea del Sinodo dei vescovi come uno dei due “segretari speciali”. Gli incontri di lavoro e la più prolungata presenza al tavolo della presidenza dell’Assemblea mi hanno permesso di apprezzare l’attenzione e la lucidità con la quale egli seguiva gli interventi, la sua disponibilità all’ascolto, la fiducia data alle persone che avevano la responsabilità di guidare l’Assemblea e le sue parole, in particolare nei discorsi di apertura e di chiusura delle due sessioni e nelle omelie. Anche se sembra poco intonato a un momento di tristezza che stiamo vivendo, pur nella luce della Pasqua, mi permetto di rievocare quello che più volte ho sentito dire da papa Francesco alla fine degli incontri: «Mi raccomando, non perdete il buon umore!». Il “buon umore” a cui si riferiva non è certo quello della superficialità: è quello della fede, della certezza che la storia è affidata alle mani misericordiose di Dio e che, con lui, il nostro impegno nel bene non è mai vano».
«Assieme ai gesti e agli insegnamenti, il pontificato di Francesco è stato ricco di incontri: con quelli che impropriamente sono definiti “i grandi della terra” e con uomini e donne che, anche in questo caso impropriamente, sono identificati come “ultimi”. In lui abbiamo visto la verità di ciò che l’apostolo Pietro ha dichiarato dopo l’incontro con il centurione Cornelio: “Dio non fa preferenza di persone” (At 10,34)».
Don Riccardo Battocchio Vescovo Eletto di Vittorio Veneto
