Pippo Baudo, spettacolo ma anche impegno – e fede – reale
Le sue vicende affettive e familiari, le sue parole, sempre molto dirette e sincere e il suo impegno reale a favore degli ultimi ne fanno davvero un protagonista, e un simbolo, di una concezione dello spettacolo mai divisiva, ma mirata. Un grande - e poliedrico - che ha attraversato il costume del nostro Paese, già da prima del fatidico Sanremo del 1968, tra l’altro anno di una contestazione che fece la sua comparsa anche al Festival
Dalla Sicilia, era nato Giuseppe Raimondo Vittorio, a Militello il 7 giugno del ’36, attraverso il teatro (fin da piccolo veniva chiamato a recitare in rappresentazioni religiose), interpretando perfino il conterraneo Pirandello, e la laurea in Giurisprudenza mai messa a frutto, a pianista in un’orchestra e, tutto si tiene, fin dall’inizio, in tv con Enzo Tortora. E però pure inviato all’estero per documentare le drammatiche condizioni dei lavoratori, soprattutto gli emigranti, anche a Marcinelle, teatro di una delle più orrende tragedie della storia del lavoro.
Ma anche compositore, visto che il piano lo sapeva suonare, e bene, e che “Donna Rosa”, e siamo nel ’68, uno dei grandi successi di un altro grande compianto, Nino Ferrer, era sua e di Luciano Fineschi.
Certo, nazional-popolare, etichetta che gli fu messa addosso con intento dispregiativo, e che sarebbe piaciuta però anche ad una certa sinistra, che vedeva nell’ alleanza con la cultura “bassa” del popolo minuto la chiave di volta per una graduale affermazione di una visione del mondo nuova.
Nazional-popolare significava anche assunzione delle caratteristiche medie dell’italiano, tra cui quella religiosa, che Baudo, dobbiamo dirlo, affrontò lealmente e onestamente con tutte le – soprattutto proprie – contraddizioni: dal famoso invito ad andarsene, confermato da lui stesso e da Renzo Arbore, da parte di padre Pio che non aveva accettato che lui fosse lì “per curiosità” all’impegno reale durante il Giubileo del 2000 a fianco della Conferenza episcopale italiana per la riduzione, o l’abolizione complessiva, del debito dei Paesi più poveri.
E anche questo mostra
la trasversalità della sua visione della vita, fatta di una profonda ma mai esteriorizzata fede,
che lui preferiva praticare soprattutto nell’impegno reale, accanto anche alle associazioni cattoliche che aiutano le famiglie in difficoltà: impegno che torna attuale proprio al momento della sua scomparsa con il terribile spettacolo di bambini che muoiono di fame o falciati dalle armi. E questo è segno della vicinanza e della testimonianza del Vangelo nel qui e nell’ora.
Il suo silenzio degli ultimi tempi, tempi di sofferenza e di dolore al Campus Biomedico di Roma, dove ha chiesto e ricevuto i Sacramenti, è dimostrazione della complessità dell’essere umano, anche quando si tratta di
un grande che ha attraversato il costume del nostro Paese, già da prima del fatidico Sanremo del 1968, tra l’altro anno di una contestazione che fece la sua comparsa anche al Festival.
Le sue vicende affettive e familiari, le sue parole, sempre molto dirette e sincere e il suo impegno reale a favore degli ultimi ne fanno davvero
un protagonista, e un simbolo, di una concezione dello spettacolo mai divisiva, ma mirata,
e lo ha fatto, a congiungere famiglie, dai nonni ai nipoti, di fronte ad uno schermo che per decenni ha rappresentato, nel bene e nel male, parte di quella che complessivamente chiamiamo cultura. Anche se, parzialmente, e senza ironia, nazionalpopolare.