Le tensioni in Medio Oriente, la guerra in Ucraina, le nuove strategie economiche e commerciali degli Stati Uniti e il progressivo riassetto degli equilibri globali in un mondo ormai multipolare pongono sfide complesse alla comunità internazionale. In questo scenario, la capacità di leggere in profondità le connessioni tra i diversi fronti della politica internazionale è decisiva per comprenderne le implicazioni strategiche e prevedere le possibili evoluzioni. Dalle mosse di Benjamin Netanyahu a Gaza alle aperture di Vladimir Putin verso Donald Trump, fino all’impatto geopolitico dei dazi americani e al ruolo dell’Unione Europea nella crisi ucraina, emergono dinamiche in cui diplomazia, economia e sicurezza si intrecciano strettamente, ridefinendo alleanze e priorità. Per fare un punto sulla situazione il Sir ha intervistato l’analista Alessandro Politi, direttore del Nato defence college foundation.
Qual è la sua valutazione sulle recenti dichiarazioni del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu in merito al controllo di Gaza?
La questione Gaza va inquadrata in un contesto più ampio. È in corso un triangolo politico tra Russia, Israele e Stati Uniti. Si è detto che Netanyahu stesse mediando tra Putin e Trump. Personalmente, non credo a questa ipotesi: non perché Netanyahu non possa provarci, ma perché, a mio avviso, non ha la “taglia” per mediare efficacemente. Nelle relazioni internazionali, è un grande che media tra due piccoli, non il contrario. Israele può al massimo “mettere una buona parola”, ma non condurre una vera mediazione tra Washington e Mosca.
Come descriverebbe l’attuale stato delle relazioni tra Israele e la Federazione Russa?
Netanyahu dialoga con i russi perché i rapporti con gli Stati Uniti non sono buoni, nonostante le dichiarazioni ufficiali. È un effetto cumulativo di frizioni iniziate almeno dai tempi di George Bush jr.. Gli israeliani agiscono spesso di testa loro, e questo a nessun presidente americano piace. Finché Israele serve agli interessi Usa, la relazione regge; se diventasse inutile, le cose cambierebbero rapidamente. Trump, pur vicino a Israele, mette comunque “America First”.
In che termini va interpretata la disponibilità espressa oggi da Vladimir Putin a un incontro con Donald Trump, anche in assenza del presidente ucraino Volodymyr Zelensky?
È una mossa calcolata, non casuale. Putin, dopo contatti con Israele, ha voluto segnalare la disponibilità a un faccia a faccia diretto. Potrebbe pensare che i tempi siano maturi per un accordo con Trump, bypassando i negoziatori e Kiev nella fase iniziale. Ma questo approccio – il leader che tratta direttamente col leader – è un punto debole della politica estera di Trump, come lo fu di Berlusconi. Senza un lavoro diplomatico d-accompagnamento e di follow-up, il rischio è di rimanere esposti e senza risultati concreti.
Alla guerra delle armi si affianca quella delle economie. Come valuta l’impatto delle nuove tariffe e dei dazi annunciati da Donald Trump sulla scena geopolitica ed economica internazionale?
I dazi sono uno strumento fra i tanti, e spesso producono reazioni rapide e controproducenti. Per esempio, quando Trump minaccia l’India, Modi imbastisce subito un incontro bilaterale con Xi Jinping. La diplomazia americana tende a sottovalutare realtà come i Brics: sono divisi e ciascuno con le sue fragilità, ma sanno unirsi contro le pressioni di un egemone. Il mondo oggi non è più unipolare o bipolare: è multipolare e complesso.
Quali sono, a suo avviso, gli obiettivi strategici perseguiti da Benjamin Netanyahu nel contesto attuale?
Netanyahu insegue da molti anni tre obiettivi: colonizzare tutti i territori palestinesi, eliminare la concorrenza egemonica iraniana ed imporre al Medio Oriente l’egemonia di Tel Aviv. Aveva diviso la leadership palestinese e, in un certo senso, ha tentato di “comprare” Hamas. L’attacco del 7 ottobre lo ha colto di sorpresa, come accadde nella guerra del Kippur, quando segnali di intelligence vennero ignorati per pregiudizio politico. Ora vuole trasformare lo shock in un’opportunità per “ripulire” Gaza, ma non ci è riuscito: Hamas è ancora lì, così come i sopravvissuti della popolazione di Gaza.
Lei ha definito l’attuale conflitto israelo-palestinese come una “guerra rivoluzionaria”. Può spiegare cosa intende?
Questa non è semplicemente un’operazione antiterrorismo: è una guerra rivoluzionaria, come quelle degli anni ’60 e ’70 nelle fasi di decolonizzazione, con mezzi tecnologici più avanzati, ma stessa logica politica. Israele, in parte, è vittima della propria narrativa e per questo non ottiene risultati politici, nonostante il body count, vale a dire il numero delle vittime della guerra iniziata il 7 ottobre. Lo stesso vale per Hezbollah: dopo operazioni militari e d’intelligence anche spettacolari, il risultato politico è che Hezbollah resta in Libano e negozia.
Ritiene plausibile che Israele possa occupare integralmente la Striscia di Gaza?
Storicamente, non è un fatto che non si è prodotto. Ariel Sharon – un leader del Likud e un generale – decise di evacuare Gaza perché le colonie erano insostenibili. Pensare di riuscire oggi dove Sharon concluse che era impossibile rischia di essere un’illusione. Anche lo stato maggiore della difesa israeliana ha avvertito che non esiste una soluzione militare alla questione.
Qual è oggi, a suo avviso, lo stato della leadership politica di Netanyahu?
Ha dissipato un capitale politico enorme, costruito in 80 anni dopo la Shoah. In tre anni ha perso consenso internazionale ed interno, creando fratture profonde nella società israeliana. C’è una migrazione significativa di persone che non condividono la svolta politica interna.
Come giudica l’attuale posizione strategica della Russia di Vladimir Putin?
Putin ha consumato in pochi anni un capitale militare e politico costruito in vent’anni. Ha perso l’Europa come cliente, è più dipendente dalla Cina – cosa che non desiderava – e non ha più risorse demografiche illimitate per proseguire la guerra.
Qual è la valutazione che dà dell’operato dell’Unione Europea in relazione ai conflitti in corso?
Politicamente ha reagito bene all’aggressione russa, sostenendo l’Ucraina. Ma non è “in guerra”, è in una postura di non belligeranza ostile verso Mosca. L’arrivo di Trump l’ha colta impreparata: la Commissione europea e la maggior parte dei governi non si erano attrezzati per tempo. L’eccezione è forse la Germania, in parte con un wargame politico di cui però non si sono visti gli effetti. L’Europa ha promesso troppo all’Ucraina in termini militari e politici. Solo dal punto di vista militare Nato serve almeno un decennio di preparazione (come quello piemontese nel 1848), figuriamoci per la ricostruzione e l’ingresso nella comunità euroatlantica.
A suo parere, quali sono le priorità per rendere credibile la difesa europea nei prossimi anni?
L’Europa ha bisogno di almeno dieci anni per essere credibile nella difesa e nella deterrenza convenzionale. L’idea di inviare poche divisioni in Ucraina sarebbe stata una gesticolazione politica o un atto di seria imprudenza strategica.
In sintesi, quale obiettivo politico persegue Donald Trump nella sua azione internazionale?
Vuole essere il “kingmaker”, l’asso pigliatutto della pace, non solo per immagine ma anche per motivi interni e giudiziari. Cerca di posizionarsi come l’unico in grado di concludere i grandi dossier internazionali a suo vantaggio.