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Polveriera mediorientale. Israele bombarda l’area di Rafah, in preparazione dell’operazione di terra
Sullo sfondo, la capacità di influenza degli Usa e la sua vera volontà e il ruolo delle milizie filoiraniane
Sullo sfondo, la capacità di influenza degli Usa e la sua vera volontà e il ruolo delle milizie filoiraniane
«Ciò che è molto tragico in questa situazione è la difficoltà di immaginare uno scenario successivo. È chiaro che qualora cominciasse un’offensiva su Rafah sarebbe catastrofico dal punto di vista umanitario e diventerebbe ancora più evidente che non esistono piani politici concreti che accompagnano l’offensiva israeliana, ma solo proclami retorici di ricolonizzazione ed espulsione». È la riflessione di Francesco Saverio Leopardi, docente di Storia internazionale del Medio Oriente all’Università di Padova, commentando le notizie di un’imminente invasione israeliana via terra di Rafah. In questa città nel sud della Striscia si sono riversati circa 1,4 milioni di sfollati palestinesi, fuggiti a causa della penetrazione delle forze israeliane cominciata a fine ottobre, e dei costanti bombardamenti.
L’avanzata israeliana su Rafah potrebbe rappresentare un passo concreto verso la ricolonizzazione della Striscia? «Sin dall’inizio si è cercato di capire quali sarebbero stati gli obiettivi israeliani, ma c’è sempre stata molta incertezza e molta divisione all’interno del Governo Netanyahu. Da un lato ci sono spinte da parte di chi ha in mente la ricolonizzazione, queste spinte fanno il paio con le invocazioni all’espulsione dei palestinesi, se non peggio… Abbiamo visto, infatti, come il caso avanzato dal Sudafrica alla Corte internazionale di giustizia evidenzi che ci sono le basi per indagare un comportamento genocidario da parte di Israele. D’altro canto, è chiaro che il Governo Netanyahu non si voglia prendere la responsabilità di governare amministrativamente i palestinesi come prima degli Accordi di Oslo. Bisogna però tenere in conto che non si vedono attori che potrebbero supplire a ciò: Netanyahu politicamente non può accettare il ritorno di Hamas al potere, ma pure qualsiasi altro attore, palestinese o arabo, non ha il margine per subentrare dopo un’invasione di terra così brutale da parte di Israele. Assumere questa posizione sarebbe politicamente insostenibile anche per governi conservatori che erano in via di normalizzazione con Israele, come l’Arabia Saudita. Sarebbe difficile ricoprire questo ruolo anche per le organizzazioni internazionali, visti i loro rapporti con Israele. Si pensi alle Nazioni Unite e al caso Unrwa, sembra che non ci sia nemmeno il margine per creare una situazione, per esempio, in cui Israele continuerà a occupare la Striscia e i servizi emergenziali verrebbero forniti da agenzie umanitarie.
Allargando invece lo sguardo alla situazione regionale, spesso tra i protagonisti delle tensioni ci sono le cosiddette milizie “filoiraniane”. Qual è il loro ruolo e quali sono di fatto i loro rapporti con l’Iran? «Innanzitutto, una delle problematiche della rappresentazione delle crisi in Medio Oriente è quella di vedere la regione come una scacchiera in cui gli attori principali muovono le loro pedine. La realtà sul terreno è molto più complessa: le potenze regionali e internazionali hanno influenza e rapporti consolidati, ma non determinano in toto le azioni dei propri partner più piccoli. L’Iran negli ultimi anni è stato capace di costruire una rete con vari gruppi politico-militari in Yemen, Siria, Iraq e soprattutto Libano. Il punto è che però tutte queste realtà hanno un’autonomia e collegamenti orizzontali tra loro che non passano da Teheran. Ovviamente l’Iran offre assistenza economico-finanziaria, politica e militare a queste fazioni, perché sono strumento dell’esercizio di influenza regionale, esse però hanno loro logiche basate sul contesto locale in cui operano. È per questo che il rischio di escalation è così alto: non esiste un controllo diretto e al contrario le potenze regionali si possono trovare coinvolte in una stessa escalation. Per di più, la Repubblica islamica stessa ha interessi contraddittori: da un lato spera che il conflitto non si allarghi e di non essere coinvolta direttamente perché sarebbe rischioso, al tempo stesso ha tutto l’interesse a vedere l’influenza statunitense arretrare nella zona e a ostacolare la normalizzazione di Israele con i paesi arabi. In questo contesto i singoli gruppi possono essere allineati: sicuramente le milizie filoiraniane in Iraq vogliono una diminuzione della presenza e influenza americana».
A proposito del ruolo Usa, come si conciliano gli apparenti tentativi di mediazione tra Israele e Hamas, da un lato, e le dimostrazioni di forza contro questi gruppi “filoiraniani”, dall’altro? «Tra tentativi di mediazione e dimostrazioni muscolari mi sembra che gli Stati Uniti propendano decisamente per le seconde. I tentativi di mediazione paiono molto performativi, ma poi i risultati sono carenti. Il fatto che non si riescano a imporre delle condizioni al Governo israeliano dopo cinque mesi di una guerra di questo tipo mi pare che la dica lunga sulle capacità di influenza degli Usa, o sulla loro volontà. Gli Stati Uniti sono in una fase storica in cui cercano di preservare il loro ruolo egemonico anche attraverso l’esercizio di un potere normativo, cercando di essere alla guida di processi di ricomposizione dei conflitti, tuttavia non c’è un’idea precisa di quale tipo di ricomposizione perseguire. Inoltre il potere normativo statunitense ha subìto una forte delegittimazione a causa delle politiche attuate negli ultimi vent’anni nella regione e soprattutto per via dell’applicazione di doppi standard in tema di rispetto delle regole internazionali e dei diritti. A oggi gli Stati Uniti avrebbero la possibilità di contribuire alla fine di questa situazione in Medio Oriente, per esempio negando o condizionando gli aiuti a Israele. E questo, invece, non avviene».
«Siamo profondamente preoccupati. Dobbiamo essere assolutamente chiari: qualsiasi intensificazione delle ostilità a Rafah sarebbe assolutamente disastrosa – afferma Riham Jafari, coordinatrice Advocacy e comunicazione di ActionAid Palestina – Più di 27 mila persone sono già state uccise in questo incubo che dura da mesi: dove mai dovrebbe andare la popolazione di Gaza, stremata e affamata? Le persone sono ormai così disperate che mangiano erba nell’ultimo tentativo di evitare la fame. Nel frattempo, infezioni e malattie dilagano in condizioni di sovraffollamento. L’unica cosa che impedirà a questa situazione di andare ancora più fuori controllo è un cessate il fuoco immediato e permanente». L’area di Rafah ora ospita più di 1,4 milioni di persone, ovvero più di cinque volte la sua popolazione abituale.
Il 26 gennaio gli Stati Uniti hanno bloccato i fondi per l’Unrwa (l’Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l’occupazione dei profughi palestinesi) così come altri dodici Paesi nei giorni successivi. La decisione arriva dopo l’accusa israeliana contro dodici dipendenti dell’agenzia di aver partecipato agli attacchi del 7 ottobre. L’Unrwa ha già licenziato nove accusati e ha avviato un’indagine interna, in molti però definiscono il taglio dei fondi come l’ennesima punizione collettiva contro la popolazione palestinese.