Ascanio Celestini al bar è autoironico: «Da quando porto in giro libro e spettacolo, mi dicono che non sono solo diventato cattolico, ma proprio prete…».
Poveri Cristi è andato in scena il 9 luglio nella cornice del parco di villa Simion a Spinea grazie alla rassegna “Spinea sogna ancora” a cura dell’associazione Edichna Paesaggio Culturale.
Il funambolico attore, drammaturgo, scrittore e regista romano, classe 1972, ha debuttato a 26 anni con Cicoria in stile pasoliniano. Oggi scruta il nuovo mondo, viaggiando sempre con le parole.
«Dobbiamo cercare di capire chi è che sta veramente peggio» racconta Celestini, accarezzando il lungo pizzetto ormai grigio, «Nell’impoverimento generale, alcuni diventano sempre più ricchi. C’è una distanza sempre più marcata fra quelli che hanno i soldi, il potere, i mezzi e chi invece ha sempre meno. E non si può certo mettere sullo stesso piano l’impiegato del Comune, che oggi ha uno stipendio che non gli permette più di fare quello che riusciva a suo padre, e il migrante ripescato in acqua che nemmeno arriva in Italia e lo deportano in Albania. Insomma, serve un po’ di attenzione per capire chi sono proprio gli ultimi ultimi. E lo ripeto sempre: certo gli ultimi stanno male, però anche i penultimi e i terzultimi stanno malino ma sono simpatici, dai quartultimi si mangia bene…».
Il suggerimento convinto è proprio in sintonia con la battuta iniziale: «Se dobbiamo fare un’alleanza, occorre concentrarsi proprio sui “poveri Cristi” che sono gli ultimi. Gli stessi con le storie che racconto nello spettacolo, come la prostituta di periferia o il barbone africano. Altrimenti, è veramente un disastro. Rischiamo di replicare ciò che alcuni sindacati hanno fatto per anni: non si alleavano con quelli che stavano diventando precari negli anni ’90. Gli assunti a tempo determinato, non avevano la tessera e non votavano per il sindacato. Quindi la tutela era riservata solo agli iscritti, assunti a tempo indeterminato. Cioè quelli già garantiti».
E il teatro in Italia nella paralisi con il Covid? «Anche qui bisogna proprio ricordarsi come è andata. Erano i primi giorni di marzo 2020 si bloccò tutto: a fine febbraio avevamo una settimana di date a Torino che saltò. Ma c’era l’idea che fosse questione di poco tempo. In effetti, avevamo una data secca a Asti e alla fine dello spettacolo, in camerino, abbiamo visto che scattava il lock down. Poi quando si stava per riaprire dal 15 giugno a Pisa avevano organizzato uno spettacolo a mezzanotte e un minuto. E quell’estate abbiamo lavorato tantissimo, perché c’era proprio la voglia di uscire anche per il teatro. Ma sull’altro versante, era partita una pioggia di soldi veramente imbarazzante. A marzo 600 euro ma a chi aveva un reddito inferiore a 35 mila euro e aveva fatto almeno 30 repliche l’anno precedente. Ecco: quando intervistavo i colleghi per una piccola inchiesta, emergeva come non fossero tanti i teatranti con più di 30 giorni di lavoro all’anno. Non contavano le docenze, il lavoro nero, le scuole. Poi si è passati al ristoro di 600 euro al mese a chi aveva almeno sette giornate lavorative. Metti che pure prendevi 100 euro lordi, fanno 700 euro in un anno. E mi dai 600 euro al mese? Era chiaro che la manovra del Governo sul teatro era esclusivamente per lasciare tutto come stava. Un vero disastro».