Quante volte ci è capitato di parlare di un prodotto, un servizio, una meta e poi trovare sul nostro smartphone annunci pubblicitari relativi proprio a quel prodotto, a quel servizio, a quella meta? Così, quasi inevitabilmente, non abbiamo potuto fare a meno di chiederci: i nostri smartphone (e più in generale i devices che ci circondano) ci ascoltano? «Ci ascoltano davvero – afferma Andrea Pin, docente di diritto pubblico comparato all’Università di Padova – Questo perché tra le mille volte in cui abbiamo cliccato “sì” compilando un modulo per la privacy o simili, abbiamo inavvertitamente abilitato un provider di servizi, tra i mille con cui ci interfacciamo, ad ascoltarci. Ne abbiamo una prova anche quando ordiniamo ad Alexa di accendersi: se si accende significa che ci stava ascoltando. Naturalmente con molta attenzione possiamo ridurre moltissimo l’esposizione, ma ciò richiede un impegno che è difficile mantenere su larga scala. Quindi, in un certo senso, siamo destinati a essere traditi».
Anche noi contribuiamo a tutto questo lasciando sul web innumerevoli “tracce”…
«Da un lato c’è il tema della capacità capillare di entrare nella vita delle persone e di monitorarla, dall’altro quello di prevedere dove si orienterà la scelta dell’acquirente o del potenziale acquirente. Amazon, per esempio, ha sviluppato un software che avrebbe consentito di mandare prodotti a casa delle persone senza che queste li acquistassero, ma semplicemente prevedendo che li avrebbero tenuti. E per quanto riguarda le prime newsletter dei megastore americani, erano ritagliate in maniera così sartoriale sulle caratteristiche dei potenziali acquirenti che, per togliere loro il sospetto di essere spiati, è stato necessario inserire volutamente degli errori. Anche la velocità dello scroll di una qualsiasi piattaforma è monitorata, perché rivela l’interesse o il potenziale interesse dell’utente per un certo tipo di contenuto».
È legale? Come proteggere i nostri dati?
«È legale, ma non al punto da essere sempre sicuro. Si gioca sempre di più sul filo del rasoio: per questo i garanti per la privacy prestano un’attenzione crescente al fatto che alcune informazioni siano fuorvianti. La prima forma di tutela è sicuramente la consapevolezza che non esistono scorciatoie (nemmeno il Vpn, un servizio che rende la connessione più privata e sicura). È poi importante avere un’interazione con gli strumenti tecnologici “più lenta”, prendendoci qualche secondo in più per scegliere l’opzione con l’accettazione di meno cookies possibili (spesso la più difficile da individuare, ma la più sicura) che consente al nostro interlocutore digitale di raccogliere meno informazioni su di noi».
Quali sono le implicazioni etiche?
«Sicuramente c’è la prospettiva, promossa dai regolatori europei ma non solo, della co-regolazione, ossia il riconoscimento che non è sufficiente un solo regolatore, ma è richiesto il contributo attivo di chi produce e “mette a terra” le tecnologie. E poi dobbiamo essere consapevoli che un uso pervasivo della profilazione normalmente tende a spingere le persone verso gli stereotipi. Ognuno di noi infatti è “profilato” in un certo modo ( “conservatore”, “progressista”, “femminista”…) e su questa base continua a vedere solo quello che gli corrisponde o ha già visto. Dobbiamo quindi chiederci: vogliamo avere una conferma delle nostre idee o siamo felici che qualcuno le sfidi? Se optiamo per la seconda, possiamo goderci le tecnologie, ma dobbiamo fare attenzione e essere coscienti che ci propongono gli strumenti per rinforzare le nostre opinioni».
Chi ha bisogno di maggiori tutele?
«Oggi siamo di fronte a uno scenario scisso: quelli che noi chiamiamo “nativi digitali”, che hanno più familiarità con gli strumenti tecnologici, sono contemporaneamente coloro che hanno più bisogno di conoscere le conseguenze del loro utilizzo proprio perché ne sono immersi. Al contrario, un nonno che fa poco uso della tecnologia potrà avere i suoi pregiudizi ma saranno i suoi, non quelli forniti dagli strumenti digitali. Anche per questo sarebbe importante un percorso di guida all’utilizzo delle nuove tecnologie non “demoniaco”, ma che permetta di conoscerne potenzialità e limiti».