Dove dovrebbe esserci solo morte c’è invece tanta vita. Certo, c’è anche tanta paura. E sofferenza. E dolore. Ma la vita prevale, supera tutto. Anche negli ultimi istanti della sua forma terrena. È questo che si percepisce nelle stanze del Cottolengo Hospice di Chieri sulla collina Torinese, che pochi giorni fa ha reso noto il suo bilancio di missione.
L’opera dispone di 21 posti letto, in camere singole, per pazienti bisognosi di cure palliative e della terapia del dolore, soprattutto nella fase terminale della vita terrena. Tecnicamente l’Hospice del Cottolengo è una struttura privata accreditata e convenzionata con il Servizio Sanitario Nazionale: l’assistenza che offre è quindi completa e gratuita, anche se attualmente la tariffa giornaliera è sufficiente alla copertura dei costi necessari per il 60%; il resto è coperto dalla Piccola Casa della Divina Provvidenza. I servizi assistenziali che sono messi a disposizione sono di tipo residenziale. All’hospice lavorano mediamente 26 persone tra medici, infermieri, amministrativi, psicologi, fisioterapisti e – naturalmente – religiosi. Inaugurato dall’Arcivescovo di Torino Roberto Repole il 2 settembre 2022, dal 2023 opera a pieno regime e ha accolto 215 ospiti nel 2023 e 241 nel 2024.
Fin qui, i numeri. Poi c’è il senso dell’hospice. L’opera realizzata dalla Piccola Casa della Divina Provvidenza sorge nel luogo dove San Giuseppe Cottolengo morì il 30 aprile 1842. Non è un caso, ovviamente. Qui avvenne un passaggio. E qui avvengono ancora molti passaggi. Ma da dove? E soprattutto per dove? Al Cottolengo Hospice si risponde a queste domande stando accanto a chi questo cammino si appresta a farlo. E seguendo quanto disse Giuseppe Cottolengo: “La vostra carità deve essere condita con tanta buona grazia e belle maniere…”. Che non significa falsa cerimoniosità gentile, ma sostanza umana. Umanità che cerca di accompagnare altra umanità con la consapevolezza di quanto ricorda circa la morte uno dei Santi più cari al Cottolengo, Agostino di Ippona: “La morte non è niente. Sono solamente passato dall’altra parte: è come fossi nascosto nella stanza accanto. Io sono sempre io e tu sempre tu. Quello che eravamo prima l’uno per l’altro lo siamo ancora”.
Già, “la morte non è niente”. Facile per un Santo. Molto, ma molto più difficile per tutti noi. Difficile per chi va e per chi resta. Al Cottolengo Hospice lo sanno bene e lo ricorda bene padre Carmine Arice – Superiore generale della Piccola Casa – che nel suo intervento nel giorno del bilancio di missione non ha esitato a parlare di “dolore totale” e di “sofferenza spirituale” e di “paura della morte”. Padre Carmine ricorda: “D’altra parte, anche Cristo in croce ha sofferto dolori fisici e spirituali, fino a gridare: Dio mio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato”.
Dolore da una parte e dignità dall’altra. All’hospice del Cottolengo si vive ogni giorno tra queste due condizioni. Tornando per un attimo al bilancio di missione, Gian Paolo Zanetta, direttore generale della struttura, traduce tutto in un concetto – “Cura della persona nel suo complesso” – che si riflette negli aspetti più apprezzati: l’umanità, l’approccio degli operatori, il coinvolgimento dei caregiver.
Ma è l’idea di dignità, e quindi di vita, quella che risuona con forza nell’operato di chi al Cottolengo si spende per gli altri. “Per questo – dice padre Carmine – mi piace ricordare Cicely Saunders che ha creato il primo hospice e che diceva dobbiamo uccidere il dolore, non il nostro paziente, affinché la vita possa emergere di nuovo e possa continuare fino alla fine”. Lo dice anche Agostino: la morte non è niente e noi dobbiamo cercare di essere sempre ciò che prima eravamo l’uno per l’altro, e cioè donne e uomini che si tengono per mano camminando; poi semplicemente qualcuno si nasconde in una stanza, ma rimane sempre accanto.