Fatti
“Sono stati due anni molto difficili. Molto”. Quello che è successo il 7 ottobre, e poi la distruzione di Gaza, “hanno creato una situazione inedita anche per chi aveva vissuto i conflitti del passato. Prima c’era sempre una percezione di ripartenza, ora non è così”. Il cardinale Pierbattista Pizzaballa, patriarca latino di Gerusalemme, torna con la mente all’autunno 2023, all’attacco terroristico di Hamas; poi l’invasione dell’esercito israeliano nella Striscia di Gaza. “Le ritorsioni, l’odio, le polarizzazioni estreme, la negazione dei fatti, il peso del clima internazionale, il ruolo dei media…. Abbiamo avvertito che si stava scavando un solco profondo”.
Pizzaballa riceve i vescovi lombardi in chiusura del loro pellegrinaggio in Terra Santa.
E si confida: “Ciò che è accaduto il 7 ottobre è qualcosa di terribile. A Gaza si è andati oltre ogni limite”. Ricorda che la sua diocesi comprende sia israeliani che palestinesi, schierati su fronti opposti, con vittime da entrambe le parti. “Anche dal punto di vista ecclesiale è stato difficile. Abbiamo espresso a tutti la nostra solidarietà, senza divenire parte dello scontro, anche perché qui la visione politica è spesso rivestita di religione, il che complica ogni cosa”. Il porporato vive nel cuore di Gerusalemme, ma si muove spesso fra la capitale, la Cisgiordania, Gaza. “Qui è importante essere presenti, ascoltare, condividere la vita e, per quanto possibile, portare e organizzare gli aiuti. Aiuti per tutti, senza fare differenze”.
Com’è la situazione a Gaza? – viene subito da domandargli. “È una situazione inimmaginabile”.
“In piedi non c’è rimasto nulla. Ci sono due milioni di sfollati dalla Striscia. Si vive nelle tende, ma mancano acqua, energia, cure mediche. C’è odore di morte… L’inverno e il freddo si avvicinano”. Dopo una pausa, commossa, riprende: “La parrocchia cattolica è diventata un hub, un luogo di incontro, un centro di smistamento degli aiuti, almeno quelli che arrivano. C’è tantissimo lavoro da fare, e la gente si impegna, pur in una realtà carica di paura, di risentimento”. Racconta di una città rasa al suolo, di famiglie fuggite, di bambini orfani, di anziani rimasti soli. Sarà possibile ricostruire? “Per adesso non si pensa ancora alla ricostruzione, anche perché ci si domanda chi lo farà e con quali soldi. Ci vorrebbe una vera governance. Lì non ci sono ospedali, né scuole. È saltato tutto”.
La tregua reggerà? “Secondo me reggerà, perché la vogliono gli Stati Uniti e i Paesi arabi”.
Le armi dovrebbero tacere, eppure ogni giorno ci sono altri morti. “Con l’accordo” raggiunto in Egitto può aprirsi “una fase nuova – dice il porporato – in cui occuparsi dell’emergenza sanitaria, sociale, abitativa, economica. Comunque, il futuro è incerto”. Il patriarcato si è impegnato a ricostruire una scuola, la Conferenza episcopale italiana vorrebbe realizzare un ospedale: “Ci sarà da organizzare gli aiuti, coordinare i progetti”.
Quando si passa a parlare di Cisgiordania, Pizzaballa si rabbuia.
“Una terra senza legge, con i coloni che si espandono senza limiti e senza che le forze militari israeliane intervengano”. Descrive realtà molto concrete: ad esempio il boicottaggio della raccolta delle olive, che sono una fonte di vita per i palestinesi di quella regione. I check point rendono difficili, se non impossibili, gli spostamenti, la gente non può raggiungere i luoghi di lavoro, “ci sono tanti villaggi prigionieri”.
Il discorso si sposta su altri versanti. “Il perdono? A livello personale è una cosa, a livello comunitario tutt’altra”.
E la speranza? “È difficile parlare di speranza qui, a Gaza, a Tayibe. Non bisogna confondere la speranza con una soluzione politica o qualcosa di esclusivamente umano. La speranza è figlia della fede. Se credi puoi fare qualcosa, puoi impegnarti. Qui sono tante le persone che si impegnano, io le chiamo ‘i risorti di oggi’ perché hanno dentro il desiderio di vita”.
Cosa c’è nel cuore del pastore? “Il cuore del pastore si nutre anzitutto di preghiera”, risponde.
“Ci si mette di fronte alla Parola, perché aiuti a comprendere. Poi c’è l’ascolto della gente, ed è per questo che ho proseguito le visite pastorali, incontrando le comunità” che, lo ricorda un’altra volta ancora, comprendono cattolici sia israeliani che palestinesi. “È poi importante il confronto spirituale, con i cristiani ma non solo con loro, che mi aiuta a conservare una certa stabilità”. Infine: si possono superare odio e divisioni? “Servono piccoli gesti quotidiani – risponde –, creando occasioni e qualcosa di diverso che renda questo odio sempre meno radicato. Servono incontri e gesti che portino a un cambiamento positivo. Bisogna dare concretezza alla speranza”.