Terra Santa: c’è ancora tempo, nonostante tutto, per la pace
Papa Leone invoca ogni giorno la fine del conflitto. L'Onu si fa sentire. Non mancano appelli per Gaza e manifestazioni che richiamano la tregua e il diritto umanitario internazionale. A due anni dall'attacco terroristico di Hamas, il governo e l'esercito di Israele sono andati ben oltre la "legittima difesa". Intanto in Palestina si continua a morire. L'Unione europea prova a farsi sentire con blande sanzioni. La politica deve fare la sua parte affinché palestinesi e israeliani possano vivere, anzi convivere. Insieme
Sul conflitto tra l’esercito israeliano e Hamas sono puntati i riflettori del mondo. Non così avviene – è bene subito riconoscerlo – per le altre decine di guerre combattute in questi stessi giorni in tante regioni del pianeta. Altrettante tragedie, con numeri di morti e sfollati e distruzioni persino superiori alla Striscia di Gaza. Eppure – anche questa è un’evidenza – ciò che avviene in Terra Santa ha un valore storico, politico e geostrategico che va oltre i fatti di questi giorni, di questi ormai due anni, dal 7 ottobre 2023, di lutti, fame, bombardamenti, dignità umana violata, diritti calpestati, di odio seminato senza ritegno.
Non passa giorno in cui Papa Leone, inascoltato dai potenti, invochi a gran voce “un’alba di pace e di giustizia per il popolo palestinese”.
Gli fa eco la testimonianza di chi ha scelto di restare, come padre Romanelli e la sua comunità, per dare volto a un diverso avvenire. Anche perché forse non saprebbero dove andare… Lo scellerato e omicida attacco terroristico di Hamas ha scatenato la risposta del governo di Benjamin Netanyahu; risposta che è andata ben oltre la legittima difesa, così come è concepita dal diritto internazionale. E mentre la commissione d’inchiesta delle Nazioni Unite parla esplicitamente di “genocidio” per quanto succede a Gaza, il ministro di Tel Aviv, Bezalel Yoel Smotrich, rilancia la vergognosa idea di Trump su Gaza, di farne un “eldorado immobiliare”, un resort di lusso dopo che tutti i palestinesi saranno stati uccisi o cacciati dalla loro terra. Così mercoledì 17 settembre la Commissione europea, dopo infinite titubanze, ha avanzato alcune proposte per frenare la guerra
il cui obiettivo, ha precisato l’Alto rappresentante per la politica estera Ue, Kaja Kallas, “non è di punire Israele ma di migliorare la situazione a Gaza”.
Intento legittimo, doveroso. Così nel “pacchetto” presentato a Bruxelles appaiono dazi sul commercio con Israele (davvero poca cosa sul piano economico), sanzioni ad personam verso ministri oltranzisti e coloni israeliani in Cisgiordania, e sanzioni verso i leader di Hamas. Nessuna misura, invece, sul commercio di armi da e verso Israele. Si tratta, in effetti, di misure poco più che simboliche – il cui valore politico non va sminuito –, le quali dovranno peraltro avere il beneplacito del Consiglio, dove siedono i rappresentanti dei 27 Stati Ue: la maggioranza qualificata da raggiungere sembra però compromessa per le resistenze di alcuni governi, italiano compreso. Si diceva di proposte “leggere”, mal giustificate dal commissario al commercio, Maros Sefcovic, che ha imprudentemente parlato di “misure proporzionate a quello che accade a Gaza”. Un’uscita sfortunata, che non tiene conto dei 60mila morti (stando alle poche fonti rimaste sul campo) e alle centinaia di migliaia di sfollati che, pressati dai carri armati dell’Idf, vagano senza meta.
Tutto perduto, dunque? Ciò che è finora accaduto nella terra attraversata da Gesù non può essere cancellato.
I morti – di entrambe le parti – non torneranno in vita (almeno non in questa vita); i bambini sopravvissuti non scorderanno ferocia, fame e lacrime; case, scuole e ospedali divenuti macerie non torneranno al loro posto. Forse la stessa sicurezza di cui la popolazione d’Israele ha bisogno per un’esistenza “normale” rimarrà lontana. Eppure, la politica può ancora fare la sua parte, mentre i carri armati si possono fermare, gli ostaggi possono essere restituiti alle loro famiglie, agli aiuti umanitari si possono spalancare le strade.
La tregua è sempre possibile, la via della coesistenza pacifica fra due popoli, con due Stati, non è perduta per sempre.
Nel tempo della speranza – nell’attesa che decisioni sensate e umane siano assunte senza ulteriori indugi – a ciascuno di noi, alle società civili, alle comunità religiose, s’impone di non tacere, di continuare a informarsi e a discutere di pace, di manifestare, di immaginare un domani senza armi e senza odio. Per la Terra Santa, per l’Ucraina, per il Sudan, per Haiti, per il Myanmar… e per tutti quei popoli che desiderano e meritano, come noi, pace, democrazia, diritti, benessere. E futuro.