Idee
«Ricorda che se muori per il tuo Paese, sarai con Dio nel suo regno, in gloria e vita eterna». Queste parole non sono state pronunciate da un prelato durante la seicentesca guerra dei 30 anni che pose fine alle guerre di religione. Sono state dette nel settembre 2022 dal patriarca ortodosso Kirill. Egli ha poi sostenuto che da un punto di vista «spirituale e morale, l’operazione militare speciale è una guerra santa», condotta a difesa «della Santa Rus’» e a protezione del «mondo dall’assalto del globalismo e dalla vittoria dell’Occidente caduto nel satanismo».
In quella che noi chiamiamo Terra Santa, il sionismo messianico di alcune componenti israeliane sostiene che la ricostituzione della terra promessa, identificata nella grande Israele “dal fiume al mare” è la condizione per l’avvento del regno divino. Anche per l’islamismo palestinese di Hamas è Dio ad aver dato la Terra che sta “dal fiume al mare” al popolo. Per entrambi la ricostituzione di un territorio “sacro” diventa perciò un obbligo, fondato religiosamente. Discorsi analoghi si ritrovano nel così detto sionismo cristiano e nell’evangelismo apocalittico, i quali leggono i conflitti in Medio Oriente come segni della resa dei conti finale (l’Armageddon), da riconoscere, secondo gli uni, da incentivare attivamente per accelerare i tempi della salvezza, secondo gli altri.
Le religioni stanno svolgendo un ruolo importante in molti dei conflitti in corso. Da una parte esse paiono orientate a svolgere un ruolo pacificatore. Basti pensare – limitandosi all’ambito cristiano cattolico – alle encicliche, alle preghiere interreligiose per la pace iniziate nel 1986 ad Assisi, alle infinite prese di posizione della Santa Sede, alla dichiarazione di Abu Dhabi per la pace mondiale e la fratellanza umana. Dall’altra parte, però, alcune forme che le credenze religiose assumono si pongono come fattori di destabilizzazione. Protagoniste di questa involuzione sono le componenti fondamentaliste e integriste presenti in ogni religione.
Se si osserva a grandi linee il quadro odierno è difficile evitare l’impressione che le componenti destabilizzanti abbiano un’influenza maggiore di quelle moderate, nel determinare i conflitti in corso e nel renderne difficile la soluzione. Tanto che si potrebbe parlare di un contributo netto delle religioni alla “terza guerra mondiale a pezzi”. C’è un’altra cosa importante da dire. Il conflitto non è solo esterno alle religioni, ma è anche interno a esse, per cui le stesse religioni si presentano come un “campo di battaglia”, tra componenti moderate che cercano di costruire la pace e posizioni oltranziste, che assecondano i conflitti quando non li fomentano. Un tempo i gruppi fondamentalisti erano largamente minoritari. Oggi la loro presenza ed efficacia si sono allargate di molto. Ci ritroviamo perciò, dentro la stessa religione, da un lato con un discorso religioso iper-politicizzato e iper-attivo e dall’altra con un’ispirazione religiosa depoliticizzata, asettica, piuttosto passiva di fronte al fondamentalismo nazionalista.
Chiediamoci infine: perché le religioni si fanno coinvolgere nei conflitti? Sappiamo che il fattore religioso riveste un ruolo importante nella costruzione delle identità etnico-nazionali. Un nesso tra religioni e guerra si dà quando i nazionalismi etnici esplodono. Accade sovente allora che le religioni seguano la politica. Ciò avviene più facilmente quando la sopravvivenza fisica e/o morale-culturale di un popolo è avvertita come colpita da sfide radicali. Ma avviene anche perché gli Stati hanno problemi di insufficiente legittimazione e le religioni sono un rilevante serbatoio simbolico cui attingere. Questi processi sono più diffusi oggi, come esito ultimo della decolonizzazione, in un mondo dove l’identificazione degli Stati su base ideologica non è più praticabile. Ma non riguardano solo i Paesi decolonizzati.
Quando le dinamiche etnico identitarie si scatenano, quando cioè su di un popolo si è imposta la micidiale triade “etnia-lingua-terra”, allora le religioni fanno molta fatica a starne fuori. Ci sono casi in cui le religioni si fanno promotori attivi del nazionalismo. Negli Stati Uniti ad esempio da alcuni anni, anche dei cattolici si riconoscono nel cosiddetto “nazionalismo cristiano”, quello che considera l’America un Paese benedetto dal Signore e che vuole vedere il cristianesimo privilegiato nella sfera pubblica. E ci sono casi in cui le chiese-religioni finiscono per essere coinvolte nel conflitto loro malgrado. Perché quando il nazionalismo si afferma, le religioni fanno molta fatica a starne fuori e o si adeguano a esso, o finiscono per dividersi al proprio interno. Così è avvenuto in Germania durante il Terzo Reich.
Per questo, allora come oggi, è decisivo che le chiese riflettano su quanto sta accadendo, perché esse ne saranno sicuramente coinvolte e, se i processi in atto continuano, si troveranno o a vedere snaturata la propria natura o a spaccarsi. I movimenti nazionalisti di ispirazione religiosa – scriveva Civiltà Cattolica due anni fa – sono tra i fattori più pericolosi che oggi possono portare al conflitto e costituiscono una grave minaccia per l’umanità.