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Ucraina nell’Ue? Un segnale politico più che un’opzione reale. Il punto con Antonio Varsori
Da lustri sono sospese le candidature di Turchia e Paesi della Ex Jugoslavia
IdeeDa lustri sono sospese le candidature di Turchia e Paesi della Ex Jugoslavia
Un “passaporto europeo” più simbolico che sostanziale. L’Ucraina si aggiunge ad altri cinque Paesi (Albania, Macedonia del Nord, Montenegro, Serbia e Turchia) sulla soglia dell’Unione Europea ormai da lustri. «Devo dire che nei confronti di Kiev è stata assunta una decisione con una forte componente politica legata all’attualità. Una sorta di incoraggiamento» spiega Antonio Varsori, professore emerito di Storia relazioni internazionali. Titolare dalla cattedra Jean Monnet al Bo, presidente della Società Italiana di storia internazionale e membro del Comitato per la Pubblicazione dei documenti diplomatici italiani del ministero degli Esteri, ha pubblicato saggi e libri fra cui Le relazioni internazionali dopo la guerra fredda 1987- 2017 (Il Mulino).
Dunque, qual è il significato della candidatura ucraina all’ingresso nell’Europa dei 27?
«La dimostrazione politica: una dichiarazione di sostegno, non soltanto militare. Ma anche il desiderio di incoraggiare così l’Ucraina: siamo amici, non vi abbandoneremo. Dall’Europa arriva una sorta di petizione di principio, perché sappiamo bene che concretamente i negoziati per l’ingresso nell’Ue saranno (se e quando partono) molto lunghi e complicati. Tant’è che il presidente francese Macron ha ricordato che serviranno 15- 20 anni: i criteri di valutazione delle candidature (fissati a Copenahgen nel 1993) sono rigidi. A cominciare dalla democrazia liberale e dall’economia di mercato».
Ci saranno altri nodi da sciogliere?
«Occorre, infatti, tenere in considerazione che l’Ucraina è un grande Paese di oltre 40 milioni di abitanti. Diventerebbe uno dei più importanti territorialmente e dal punto di vista demografico. Nello stesso tempo è anche uno dei più poveri del continente. Ciò si tradurrebbe in un impatto tutt’altro che trascurabile sul bilancio comunitario, come sull’assegnazione dei fondi strutturali».
L’Ue aveva aperto alla Turchia, Paese a maggioranza islamica, nel Consiglio europeo di Helsinki (dicembre 1999) e confermato la scelta nel 2004. Negoziati che da allora sono sempre rinviati…
«Un Paese associato fin dal 1963 alla comunità europea, tuttavia con un negoziato che non si è concretizzato. La dichiarazione politica non significa automatismo di ingresso nella Ue. La Turchia si era candidata con l’aspetto religioso che allora era secondario: uno Stato laico grazie a Atatürk, un Paese strategico membro della Nato, ma anche uno dei primi ad entrare nel Consiglio d’Europa. Ma all’epoca non c’era stato l’11 Settembre e ora c’è Erdogan che ha cambiato politica. Oggi il governo turco non è interessato all’Europa, ma guarda al Medio Oriente».
Cos’è cambiato nell’Ue con l’ingresso dei Paesi baltici e insieme di Croazia e Slovenia?«Se guardiamo alle caratteristiche di questi Paesi, si è trattato di un’adesione relativamente facile. Sono “piccoli”, non pongono problemi di equilibrio economico all’interno dell’Unione, hanno prospettive concrete di sviluppo. E nel caso di Slovenia e Croazia erano per giunta sempre percepiti come culturalmente parte integrante dell’Europa. Due Stati dell’ex Jugoslavia a Bruxelles ponevano la questione: che si fa con gli altri? L’allargamento nei Balcani è, finora, rimasto irrisolto. Con i Paesi baltici, invece, è diverso: hanno spostato il baricentro dell’Ue. Se si sposta a nord e a est, significa che un’altra parte diventa periferica. Il centro dell’Europa cambia anche con l’ingresso di Svezia e Finlandia nella Nato. E quando mai finirà la guerra in Ucraina, rimarrà comunque il problema delle relazioni con la Russia».
La Bosnia ed Erzegovina aveva presentato la sua richiesta di adesione il 15 febbraio 2016. Ufficialmente riconosciuta dalla Commissione europea come Stato «potenzialmente candidato». E poi?
«Torniamo, appunto, ai criteri rigidi per l’adesione e ai tempi di valutazione delle candidature. In verità, l’appartenenza all’Ue può davvero condurre alla risoluzione dei problemi interni a un Paese? La Bosnia in qualche modo è stabilizzata dopo la guerra degli anni Novanta, tuttavia occorre riconoscere anche che continua a riprodurre tensioni, conflitti, rigurgiti nell’intera area. Penso in particolare alle recenti “scintille” fra Serbia e Kosovo: con Belgrado i negoziati sono stati avviati all’inizio del 2014, mentre Pristina non è nemmeno candidata. Voglio dire che nell’intera area balcanica continuano a manifestarsi questioni latenti ma non scomparse. Ed è innegabile che l’Unione europea deve anche valutare se l’eventuale allargamento non significhi introdurre al suo interno un problema in più…».