Esattamente 50 anni fa l’editore Rusconi dava alle stampe “Il quinto evangelio”, di Mario Pomilio, scrittore e saggista di rilievo nel panorama culturale italiano: basti pensare che il suo “Il Natale del 1833”, profonda riflessione su un periodo particolarmente doloroso per Alessandro Manzoni, vinse il premio Strega nel 1983.
Il libro del 1975 è un esempio lampante di come le categorie editoriali (romanzo, saggio, biografia, ecc) siano insufficienti a rivelare la natura e la profondità di opere come questa, una sorta di romanzo epistolare in cui non esistono eroi o amori contesi, perché qui parlano, attraverso delle lettere, gli allievi di Peter Bergin. Ufficiale americano capitato nella Berlino sventrata dalle bombe alleate, diviene cercatore senza requie di un ipotetico quinto evangelio di cui aveva trovato tracce in alcuni appunti in una canonica di Berlino divenuta suo quartier generale.
Le lettere dei suoi allievi, collaboratori nella ricerca di questo nuovo Vangelo che si spargono per il mondo e di volta in volta presentano i risultati dei loro pellegrinaggi, parlano di biografie di cavalieri seguaci di Giansenio, memorie dei valdesi rifugiatisi nelle montagne calabre per sfuggire alle persecuzioni, lettere di canonici ai vescovi, o di vescovi a pontefici (ad esempio il carteggio tra il vescovo di Todi Romualdo e papa Alessandro II), testimonianze sulle esecuzioni di alcuni fraticelli ritenuti eretici perché seguaci del pauperismo di fra Dolcino e molto altro: con l’avvertenza finale da parte dell’autore che la gran parte di questo materiale fa parte della finzione narrativa.
Con il sospetto, che emerge anche da alcune di queste testimonianze, che questo agognato quinto evangelio non sia altro che la ricerca di noi tutti: una ricerca che offre sempre nuovi significati ai Vangeli canonici e che fa pensare che il quinto vangelo sia “ lo Spirito che si cerca” come emerge nell’Atto drammatico posto in conclusione del libro, dal titolo “Il quinto evangelista”.
In una sala parrocchiale tedesca del 1940 il parroco organizza una sorta di sacra rappresentazione con alcuni fedeli, tra cui un ufficiale e alcuni soldati del Terzo Reich. Pian piano i preparativi di questa rappresentazione divengono un dibattito in cui i personaggi (evangelisti, Giuda, Pilato, Barabba, uno scettico, ecc) si fondono con coloro che li impersonano, in un confronto sempre più risentito sulla natura delle leggi umane e il loro rapporto con quella divina: la domanda è se sia più importante l’obbedienza allo stato o a Dio.
Fino a che non arriva un personaggio non inviato, né previsto, con il volto nascosto da una benda. Dice di essere il Quinto Evangelista, e, una volta accettato dagli altri, inizia una lenta, implacabile dimostrazione che il Quinto Evangelio non è altro che la Chiesa stessa, alla ricerca della fedeltà alle parole del Cristo: parole di pace e perdono che entrano in conflitto con quelle di Pilato (interpretato dall’ufficiale dell’esercito), tanto che, alla fine dell’Atto, il soldato dichiara in arresto il Quinto Evangelista: lo accusa di invitare alla non osservanza delle leggi dello stato, e gli ordina di togliersi la benda: “quando l’ha fatto si scopre, tra il silenzio dei presenti, un uomo che ha il volto stesso di Gesù”.
Quinto Vangelo quindi come ricerca di ciò che continua a dirci la parola di Gesù, nella nostra vita intesa in senso integrale, insieme di corpo, spirito, di altri e di Altro, centro focale di questo abissale racconto-esortazione, da leggere soprattutto ai nostri infelici tempi di guerre e nuove persecuzioni.