Fatti
Che il Sud cresca economicamente a ritmi superiori al Nord non è una novità: sono tre anni che accade, come ci ricorda puntualmente la Svimez nei suoi periodici rapporti. E non è una novità neanche che il Nord-Est, un tempo locomotiva economica del Paese, si sia arenato per colpa soprattutto della crisi tedesca e della guerra scatenata dalla Russia in Ucraina. Sono dati ben conosciuti dagli studiosi e dagli operatori, ma che faticano ad affermarsi nella narrazione collettiva, viziata da luoghi comuni consolidati e incapace di cogliere le opportunità che questo andamento apre e le contraddizioni che in questo andamento di annidano. Perché non è in corso una gara che possa avere un vincitore a scapito degli altri, ma tutti sono alle prese con una sfida che gli eventi internazionali rendono di giorno in giorno più ardua.
Peraltro bisogna essere concreti e analitici nel valutare i fenomeni. Si fa presto a parlare di Sud, quando bisognerebbe distinguere tra i risultati di Sicilia e Campania e quelli delle altre Regioni meridionali. E poi attenzione alle illusioni ottiche: il Mezzogiorno tira più del Nord, ma i punti di partenza sono così distanti che per colmare i ritardi ci vorrà molto tempo, sempre ammesso che le tendenze odierne siano confermate in futuro. L’incremento dell’occupazione è avvenuto soprattutto nei comparti a basso valore aggiunto (costruzioni, servizi e turismo) e la conseguenza è che quasi un terzo dei lavoratori meridionali è rimasto in condizioni di povertà. Non è un caso che la crisi demografica abbia colpito più duramente le Regioni del Sud laddove alle dinamiche comuni con il resto del Paese si è aggiunto il salasso delle migrazioni interne che spostano al Nord soprattutto giovani e laureati. Di questo la politica dovrebbe tenere conto invece di attardarsi in retoriche regionaliste che il contesto geopolitico globale rende sempre meno credibili. Tra l’altro i dati della Svimez dicono che sono i Comuni e non le Regioni i soggetti che si sono dimostrati più efficaci nell’impiego delle risorse del Pnrr e dovrebbero essere maggiormente valorizzati a dispetto delle scelte che invece si vanno prefigurando anche a livello istituzionale.
Bisogna comunque prendere atto che la pur moderata crescita economica del nostro Paese è largamente debitrice – al Nord come al Sud – degli investimenti pubblici che si sono potuti realizzare soprattutto grazie ai fondi europei. Senza di essi il nostro Pil avrebbe davanti il segno “meno”. Ora il problema è che il Pnrr si avvia alla conclusione proprio nel momento cui le emergenze internazionali si fanno nuovamente sentire con forza. Non è una questione soltanto italiana. Nei giorni scorsi il Parlamento europeo ha approvato a larga maggioranza una risoluzione in cui chiede alla Commissione Ue una proroga di 18 mesi per i progetti in fase avanzata. E’ tutto da vedere quel che accadrà anche in questo campo. Forse qualcosa si muoverà, ma il nostro Paese – che del piano europeo è stato il maggiore beneficiario – deve pensare al futuro e deve farlo sapendo che, ancora una volta, non crescerà se non insieme.