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Mappe IconMappe | Mappe 14 – Le identità dell’Europa – aprile 2023

mercoledì 19 Aprile 2023

Verso l’uguaglianza salariale in Europa. C’è ancora tanto lavoro da fare

Le retribuzioni medie sono ancora differenti tra i vari Paesi Ue e in attesa del salario minimo continuano le delocalizzazioni in aree più vantaggiose per le aziende

Giovanni Sgobba
Giovanni Sgobba
redattore

Sono trascorsi oltre due decenni da quando nel 2002, la Commissione europea promosse il Curriculum vitae europeo, più comunemente noto come Europass, per uniformare su scala sovranazionale la presentazione di titoli di studio, delle esperienze lavorative e delle competenze individuali, agevolando lavoratori e datori in fase di candidatura. Uno strumento che si poggia su un’impalcatura che ruota attorno a un principio essenziale: lavorare in un Paese estero senza ricorrere a permessi di soggiorno. Uniformare, dunque. Ma le opportunità di lavoro e i redditi medi, al netto del costo differente della vita, sono standardizzati tra i vari cittadini europei? A guardare i dati Ocse, l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, il divario tra i Paesi “storicamente” ricchi e quelli poveri sembra crescere: per esempio, il reddito medio annuale nel 2021 di un lussemburghese è di 58,5 mila euro, quasi il triplo rispetto ai 21 mila della Slovacchia. E poi c’è l’Italia: in tutti i Paesi europei Ocse dal 1990 a oggi il salario medio annuale è aumentato, tranne nel nostro Paese che è diminuito del 2,9 per cento. «Succede perché l’andamento dei redditi è strettamente connesso con l’andamento della produttività – argomenta Gianfranco Refosco, segretario generale Cisl Veneto – Negli ultimi 20 anni, tra la crisi finanziaria del 2008 e la pandemia, in Italia la curva è stata negativa e ha trascinato giù tutto il resto. Guardiamo i nostri “competitor”: in Germania la produttività è aumentata del 30 per cento e lo stesso i redditi; in Francia sono saliti del 20 per cento, mentre in Spagna del 10 per cento. Da noi produttività e redditi sono stagnanti e sono diretta emanazione degli scarsi investimenti in tecnologia, innovazione, crescita delle imprese». In generale, ad avere i salari medi più alti sono i Paesi dell’Europa nord occidentale come Lussemburgo, Paesi Bassi, Belgio e Danimarca, anche se secondo l’Ocse, in alcuni Paesi europei tra il 2019 e il 2020, nonostante la pandemia, i salari medi annuali sarebbero lievemente aumentati. La Slovenia ha registrato un più 2,3 per cento, così come i Paesi baltici (su tutte la Lettonia, con un aumento pari al 7,1 per cento). Ma l’incremento maggiore lo segnano le Nazioni dell’ex blocco sovietico: in Polonia, Repubblica Ceca e Slovacchia, il salario medio annuale è raddoppiato. In Lituania dal 1995 al 2020 la cifra è schizzata con più 276,3 per cento. Nello stesso periodo, se all’inizio degli anni Novanta l’Italia era il settimo Stato europeo subito dopo la Germania per salari medi annuali, nel 2020 è scesa al tredicesimo posto. Ma tutta questa oscillazione e difformità reddituale quali conseguenze ha sul mercato europeo? «In Europa abbiamo Paesi con regole diverse, pertanto la convergenza anche sui diritti dei lavoratori, sui salari e sulle tutele sociali, è ancora lenta – prosegue Refosco – Lo scorso settembre l’Europarlamento ha approvato in via definitiva la nuova legislazione sui salari minimi adeguati e i Paesi Ue hanno due anni di tempo per conformarsi. Abbiamo Paesi dove serve un salario minimo per legge perché non esistono i contratti collettivi e quindi non c’è un limite al ribasso. L’Italia, e la Commissione europea lo riconosce, ha un’elevata copertura contrattuale che non deve venire meno: in Spagna, dove esiste il salario minimo nazionale, negli ultimi 10 anni c’è stata una fuga di molte imprese dall’applicazione dei contratti collettivi e questo è un gravissimo problema perché non vengono più normati e garantiti la crescita salariale, le ferie, la tredicesima, l’assistenza sanitaria e altri aspetti che costituiscono i diritti alle persone. In Europa, oggigiorno siamo molto lontani».

Il Parlamento europeo, all’interno della direttiva, ha ribadito l’importanza della contrattazione collettiva a livello settoriale e interprofessionale: gli Stati membri in cui meno dell’80 per cento dei lavoratori è interessato dalla contrattazione collettiva, dovranno stabilire un piano d’azione per aumentare tale percentuale. Finché tutto questo non verrà livellato, i cittadini e lavoratori europei vivranno a differenti condizioni e velocità, subendo anche gli effetti della delocalizzazione di aziende in aree con “vantaggioso” costo della manodopera: «Posso citare, tra gli ultimi casi, quello di Speedline – conclude Refosco – azienda veneziana produttrice di cerchioni che fornisce grandi marchi come Ferrari o Maserati, con oltre 600 dipendenti, la cui proprietà ha deciso di disinvestire a Santa Maria di Sala per spostare lo stabilimento in Polonia. Non perché in perdita, ma perché sarebbero aumentati i profitti risparmiando sul costo del lavoro. Più in generale, le grandi multinazionali sono restie alle rappresentanze sindacali con i Cae, i comitati aziendali europei, che sono coordinamenti dei rappresentanti dei lavoratori di tutti i Paesi. Anche la cultura sindacale rimane “provinciale” e non abbraccia l’idea di una vera solidarietà europea: è vero che oggi c’è uno zoccolo di diritti minimi e le condizioni sono migliorate, ma senza un sistema integrato questo fenomeno di concorrenza tra Paesi resisterà per molto. E questo non facilita una cultura di solidarietà europea».

In Italia cresce la disparità salariale

Le diseguaglianze economiche esistono anche tra le varie classi sociali all’interno di ciascuna Nazione. Il “coefficiente Gini” è il parametro utilizzato per capire la distribuzione salariale: più è basso, più tutte le persone hanno il medesimo reddito. Più è alto invece più i redditi sono concentrati in un piccolo gruppo di persone. Nel 2021, in Europa il valore era del 30,1 per cento. Dei 27 Paesi membri dell’Ue, in 11 l’indice di Gini è aumentato negli ultimi 10 anni. Tra questi anche l’Italia (più 0,5 per cento), attestandosi, nel 2021, al 33 per cento e dimostrando un’ economia ancora squilibrata.

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