Idee
L’Australia ha vietato l’accesso ai social media ai minori di 16 anni. È la notizia di questi giorni che dà ragione alle molte voci preoccupate, rassicurandole con un provvedimento restrittivo potente e chiaro.
È giusto? Funzionerà? Dovremmo farlo anche noi?
Il dibattito è aperto e fiumi di parole sono state spese in questi giorni. L’Osservatore Romano del 20 dicembre scorso offre due preziose interviste ad Alberto Pellai e Matteo Lancini, tra i massimi esperti italiani del tema che articolano il tema offrendo diverse prospettive. Da leggere.
La decisione australiana ha il grande merito di aver obbligato tutti a riflettere su cosa è capitato, sulla società che noi adulti abbiamo costruito per le giovani generazioni e soprattutto, come bene afferma Pellai, su tutto ciò che non abbiamo fatto per aiutare i ragazzi a vivere nell’era digitale. Le cause sono complesse e non c’è un solo colpevole; piuttosto sono il frutto di un combinato disposto di velocità della trasformazione in atto, concentrazione di potere tecnologico ed economico in mano a pochi soggetti privati, debolezza del mondo adulto, immobilismo delle agenzie educative e politiche. Un vero e proprio tsunami che le persone comuni hanno subito senza poter dire o fare alcunché.
Come sempre davanti a ciò che si percepisce come una calamità, ecco le legislazioni di emergenza: utili per gestire un problema nella breve durata, quasi mai capaci di affrontare e risolve i problemi strutturali e le questioni decisive. Non sarà un divieto, fosse anche seriamente rispettato, ad aiutare i nostri ragazzi a crescere come donne e uomini sani e veri.
Potrebbe suonare banale, ma la questione vera entro cui trova spazio anche un provvedimento di emergenza è anzitutto educativa e quindi sociale e antropologica. Che umanità esprimiamo e offriamo alle giovani generazioni, in che società viviamo e introduciamo i nostri ragazzi?
Lancini usa un esempio geniale: in quasi tutti i cortili dei condomini c’è un cartello di divieto di giocare a palla. Perché? Per custodire la quiete? Per non rompere i gerani sulle finestre del primo piano? Per evitare – orrore! – che un bambino si sbucci le ginocchia? Cosa dovrebbe fare un ragazzino, ormai quasi sempre figlio unico, cui non è concesso giocare con gli amici in cortile, se non salire in casa, sdraiarsi sul divano e accendere il cellulare? E cosa dovrebbe chiedere fino allo sfinimento una ragazzina di 12 anni, unica della sua classe a non avere ancora i social perché i suoi genitori semplicemente rispettano la legge italiana che ne vieta l’uso fino ai 13?
Troppo facile dire che la colpa, tanto per cambiare, è dei genitori o della scuola. No, la responsabilità qui è di tutti. E non possiamo scaricarla solo sul legislatore che ci regala un divieto tanto rassicurante quanto molto difficile da applicare.
Tutti preoccupati che i nostri ragazzi non si facciano male e non facciano disastri, corriamo seriamente il rischio di dire solo NO e nessun SI, di marcare continuamente spazi vietati e di non indicare mai una strada da percorrere. Perché il problema non è imparare a usare bene e in modo sicuro la tecnologia, quanto piuttosto decidere chi vogliamo essere e cosa vogliamo e speriamo che i nostri ragazzi vivano e diventino. Quali forme sociali abitino e costruiscano, quali ambienti conoscano e attraversino, quali rischi imparino ad affrontare, quali spazi di libertà sperimentino, quali doveri assumano. Dentro questo quadro, condiviso e scelto insieme, diventa sensata anche una proposta di buon uso dello smartphone, il rispetto doveroso delle leggi, persino una certa disciplina.
Volete che vostro figlio stia meno con il cellulare in mano? Fatelo giocare a pallone in cortile!