Fatti
Sono giorni di piena vendemmia per il vigneto Italia. La raccolta, iniziata già nella seconda parte di agosto (e ormai stabilmente anticipata di un paio di settimane ovunque rispetto ad una ventina d’anni fa), è sempre un bel momento, con un occhio al cielo che non mandi acqua e grandine proprio in questi frangenti.
Il fatto è che il settore del vino è flagellato da ben altre tempeste, una peggiore dell’altra. Dopo anni di vacche grasse, quelle in stalla oggi fanno veramente preoccupare. Ultima botta, i dazi decisi da Donald Trump sulle importazioni anche dei vini italiani. Si pensava che la saetta si sarebbe scaricata un po’ sui consumatori americani, un po’ sugli importatori e solo in parte sui produttori italiani. Invece l’Unione Italiana Vini ha appena certificato che l’amaro calice (una sovrattassa del 15%) se l’è bevuto tutto il settore produttivo, già scosso dalla svalutazione del dollaro rispetto all’euro. Cosa che rende le nostre merci automaticamente più care.
Qualcuno diceva: chi sceglie un grande prodotto, non si lascia intimidire da un aumento dei prezzi. Peccato che quasi tutto il vino esportato negli States stia nella fascia bassa di prezzo, a competere più con cileni e argentini che con i francesi. La botta si misurerà in decine di milioni di euro di mancati guadagni: che c’è da sorridere?
Già prima l’umore non era di quelli migliori. Lo sanno tutti, lo certificano pure le associazioni del settore, che le cantine sono piene di vino invenduto. Qualcuno le ha svuotate, per carità; ma tanti produttori – anche grandi, anche assolutamente blasonati – si ritrovano con milioni di bottiglie invendute, milioni di ettolitri di sfuso di cui non si sa cosa fare.
Da qui la richiesta, avanzata da più parti, di dare spazio alla distillazione per ricavare alcol, o di spingere la produzione e la vendita del vino dealcolato. Da qui i pressanti inviti a rivolgersi verso nuovi o poco esplorati mercati: Sudamerica in primis, ma anche l’Asia che non proibisce le bevande alcoliche. È che, tra il dire e il fare, passa quel tempo che non c’è, perché il nuovo vino sta arrivando, abbastanza copioso in verità quest’anno.
Per chiudere, c’è da registrare la continua diminuzione del mercato interno, laddove le giovani generazioni bevono birra, cocktail, superalcolici oppure non bevono proprio per ragioni salutistiche. Ma l’abitudine al calice di Vermentino o di Brunello è giusto una rarità. E i giovani di oggi saranno i maturi (non) consumatori di domani.
C’è chi dice: espiantiamo le vigne laddove non hanno più senso economico; chi consiglia vivamente di tagliare le rese e di puntare ovunque sul “meno è meglio”; chi di fare campagne d’immagine per attirare nuovi consumatori; chi infine sostiene l’esigenza di una massiccia promozione all’estero che, però, si scontra su un dato di fatto. I produttori italiani sono moltissimi, polverizzati, abbastanza anarchici e alle prese con centinaia di Doc e Docg ormai incomprensibili ai più qui in Italia. Figuriamoci se in Canada o Giappone sapranno valutare la sfumatura distintiva tra il Verdicchio dei Castelli di Jesi e quello invece di Matelica…