«Se la socialità è intrinseca alla persona, ne discende che la relazione educativa non è una sovrastruttura, e l’essere umano deve (in senso morale) entrare in relazione se vuole vivere all’altezza di quello che è; deve entrare in una relazione educativa se vuole esprimere le sue virtualità. In particolare, quella che gli è più congeniale: la libertà».
Riporto questa frase di Giuseppe Mari, ordinario di pedagogia alla Cattolica di Milano, prematuramente scomparso, acuto pedagogo a cui devo un rinnovato slancio all’agire educativo, per entrare dalla porta principale in un tema centrale delle nostre vite. Il tema è quello della libertà come obiettivo espresso della relazione educativa, della relazione messa in atto da un adulto nei confronti di un giovane. Già qui ravvisiamo i primi elementi costitutivi della relazione: un adulto, non un grande anagraficamente, ma un adulto nella sostanza di una persona che ha la forza e il desiderio di prendere non solo le proprie responsabilità ma anche quelle della persona che gli è a fianco, e un ragazzo, una persona nel cammino della vita con meno esperienze, con meno strada percorsa. L’adulto si mette accanto e con le sue capacità conduce il giovane nel perseguimento dell’obiettivo prefissato con una duplice veste: quella di maestro (da magis che vuol dire di “più”), e quella di ministro (minus che vuol dire “meno”, a servizio) pur nella stessa dignità come persone. Da queste prime battute si può attestare che la complicazione che si sta intravvedendo non è cosa da poco e che l’essere contemporaneamente capace di essere guida, in un mondo dove ormai la mia ragione vale almeno quanto la tua e a servizio che la cultura moderna traduce come schiavitù, pur rimanendo nella pari dignità umana, dà adito a molteplici interrogativi. I più importanti tra i quali è: chi me lo fa fare? Come coinvolgere gli “educandi”, e renderli interessati agli stimoli e alle proposte degli adulti? Perché chi ha una missione educativa sente spesso fallimentari le sue azioni in merito? Perciò le richieste più sentite sono quelle concernenti la propria capacità di azione, la reale possibilità di essere uno strumento pedagogico efficace non per l’immediato, ma per una prospettiva futura. Ne consegue che chi si occupa di educazione ha la necessità, non tanto per sé stesso, ma per le persone che incontra e per il ruolo che riveste di essere preparato ad affiancarsi ad un’altra persona, cogliendone le caratteristiche personali e il contesto culturale di appartenenza entro cui si gioca la relazione stessa. In altre parole, per essere “effettivamente educativa”, la capacità dell’educatore di entrare in relazione deve costituirsi “accompagnamento maieutico” nel quale gli elementi costitutivi sono la capacità di attendere, ascoltare e di incontrare la realtà. La relazione educativa è l’azione pedagogica per eccellenza, perché diventa un accompagnamento personale e quotidiano nella cura dell’altro che è una persona in divenire e perciò richiede una riflessione costante sulle pratiche e modalità educative da mettere in atto. L’emergenza educativa, di cui spesso si sente parlare, non è una responsabilità dell’educando, ma degli adulti che hanno smarrito la strada da percorrere e annacquato il proprio ruolo confondendo l’autorità educativa con un’autorevolezza sbiadita. Nonostante questa emergenza gli adulti nelle varie forme gruppali societarie, dalla famiglia all’associazionismo, dalle istituzioni al volontariato ricoprono un ruolo socio educativo rilevante. L’anello di congiunzione tra i giovani e la società è ancora l’adulto che media tra il limite e il desiderio di libertà degli educandi che cercano, mettendo alla prova, educatori come modelli ai quali ispirarsi e dai quali essere accettati e accompagnati. Comincio così, oggi, con questo articolo, un percorso a puntate sul tema della relazione educativa come strumento privilegiato e indispensabile per unire le generazioni e sentirsi corresponsabili della nostra umanità.
Matteo PasqualEducatore, Pedagogista, Filosofo Clinico e Formatore Sociale
