IdeeMediterranea Saving Humans Al Centro universitario spazio alla solidarietà. Don Mattia Ferrari e Luca Casarini: impariamo ad abitare il tempo dell’altro
Un mare che separa, ma che può anche unire. È attorno a questa apparente contraddizione che lo scorso martedì 8 aprile si è sviluppato presso il Centro universitario di Padova l’incontro “Spazi di solidarietà”, che ha visto dialogare don Mattia Ferrari, sacerdote e cappellano dell’ong Mediterranea Saving Humans, e Luca Casarini, attivista e cofondatore della stessa rete di soccorso civile nel Mediterraneo. Due voci diverse per formazione, ma unite da un impegno comune: ridare umanità a un tratto di mare che, troppo spesso, diventa confine di morte. Il cuore della serata si è concentrato proprio su questo: il Mediterraneo non come spazio di conflitto o barriera, ma come luogo teologico e politico dove può rinascere la fraternità. Un mare in cui, dal 2013, oltre trentamila persone hanno perso la vita nel tentativo di attraversarlo. Una cifra che grida ingiustizia e richiama con forza l’urgenza di una risposta da parte dell’Europa e delle sue coscienze. Nel corso del dialogo, don Mattia Ferrari ha ricordato come la missione di Mediterranea sia nata proprio per colmare un vuoto lasciato dalle istituzioni: «Abbiamo deciso che non potevamo restare fermi davanti all’ingiustizia». Le navi della società civile diventano così segni concreti di una speranza che si fa azione: strumenti per salvare vite, certo, ma anche simboli di una solidarietà che non si limita al gesto del salvataggio, ma si apre all’incontro umano e al riconoscimento dell’altro. Luca Casarini, in collegamento video da Bruxelles, ha parlato invece della necessità di cambiare prospettiva, riprendendo un’espressione cara a papa Francesco, secondo il quale «il tempo è superiore allo spazio». Piuttosto che concentrarsi su confini e territori da difendere, bisogna imparare ad abitare il tempo dell’altro, a condividerne la storia, le ferite, le speranze. Una sfida culturale e spirituale: riconoscere che chi arriva da un gommone non è solo un “problema” da gestire, ma un volto che ci interpella. L’esperienza personale dei due relatori mostra come la solidarietà, quando è autentica, non sia mai a senso unico. «Non siamo noi a salvare loro – ha sottolineato Casarini – Il legame che si crea ci trasforma tutti, in una dimensione di reciprocità». Don Mattia ha raccontato episodi di bordo, momenti in cui la preghiera condivisa, il pianto, la cura reciproca tra soccorritori e migranti hanno generato un’intimità che spezza le logiche del potere e dell’indifferenza. Esempio emblematico di queste dinamiche è lo Spin Time Labs di Roma, dove persone senza casa, migranti e italiane, convivono in uno spazio occupato riconvertito a centro sociale e abitativo. Un’esperienza che si incarna in una dimensione di accoglienza quotidiana che va oltre le categorie politiche: si costruisce comunità con ciò che si ha, e soprattutto con ciò che si è.
Proprio nella loro diversità, don Mattia e Casarini vogliono mostrare quanto fede e impegno politico possano convergere quando si mettono al servizio della dignità umana: «Non importa da dove si parte ma dove si arriva, e se si è disposti a camminare insieme», ha spiegato don Mattia. «Ci troviamo e ci ritroviamo camminando: questo ho imparato prima dagli zapatisti e poi anche dal metodo sinodale», ha aggiunto Casarini, che da leader dei disobbedienti e del pianeta “no global” nel 2023, per volontà del papa, si è ritrovato a partecipare ai lavori del sinodo proprio per la sua attività a favore dei migranti. «Bisogna essere disposti a cambiare noi stessi e io stesso ne sono una testimonianza: ho fatto tante cose, alcune in cui mi riconosco ancora e altre che oggi considero errori, stupidaggini. L’importante però è continuare a camminare, e che camminando siamo disposti ad aprirci al mistero». «L’essere umano sarebbe un nulla disperso in un universo composto di miliardi di galassie, se non fosse appunto per il fatto di accogliere il mistero, di cercare il senso profondo delle cose», ha proseguito il fondatore di Mediterranea. La fede, in questo senso, non è una barriera ma una forza che spinge ad agire, a compromettersi, a stare dove è più difficile stare. E così anche l’attivismo, quando è autentico, non può prescindere dalla cura dell’altro, dalla capacità di ascolto, dal desiderio di costruire legami reali. Entrambi, pur con linguaggi diversi, ci dicono della necessità di uscire da una società fondata sulla competizione e sulla paura per abbracciare una logica della solidarietà e dell’interdipendenza. Tra le sollecitazioni più forti dell’incontro, quella di non aspettare grandi eventi o rivoluzioni per cominciare a cambiare le cose. Cominciare dal poco significa riconoscere la potenza trasformativa dei piccoli gesti: una relazione costruita nel proprio quartiere, un incontro organizzato in parrocchia, una donazione per sostenere le missioni e chi si occupa degli altri. Perché, ha ribadito don Mattia, la solidarietà è un’attitudine quotidiana, una scelta che si rinnova ogni giorno. Anche parlare con i propri amici di cosa succede nel mar Mediterraneo, anche aprire spazi di confronto su questi temi, è già un atto di resistenza all’indifferenza. Nella parte finale dell’incontro è stato dato spazio al pubblico con domande molto concrete: come aiutare Mediterranea, come coinvolgere la comunità, cosa possiamo fare nel nostro piccolo. Le risposte sono state semplici ma forti: la solidarietà non ha un’unica forma. Può essere una donazione, una testimonianza, un impegno attivo, una parola giusta detta nel momento giusto. Il messaggio conclusivo, condiviso da entrambi, è stato chiaro: nessuno si salva da solo, e nessuno deve restare spettatore. In un mondo che sembra costruito sull’“io”, oggi c’è un disperato bisogno che ci sia di anche un “noi”. Un “noi” che tenda mani invece di erigere muri, riconoscendo nei volti sconosciuti non minacce, ma fratelli e sorelle.
Mediterranea nasce nell’estate del 2018, a cinque anni dalla strage di Lampedusa, come risposta alla politica “dei porti chiusi”. La piattaforma della società civile in breve tempo ha messo in mare la prima e tuttora unica nave del soccorso civile battente bandiera italiana.
Lo scorso 11 aprile è arrivata in Albania la nave Libra della Marina militare italiana, con a bordo 40 migranti che sono stati poi trasportati al centro di Gjadër. Si tratterebbe di cittadini di nazionalità tunisina, egiziana, bengalese, pachistana, algerina, georgiana, nigeriana e moldava che arrivavano dai Cpr (Centri di permanenza per i rimpatri)di Bari, Torino, Trapani, Gorizia, Milano. A far discutere, la scelta – anche mediatica – di far scendere i migranti dalla nave mostrando le mani ammanettate. Per l’europarlamentare del Pd, Cecilia Strada, arrivata dopo in Albania, «sono immagini vergognose, che mostrano quello che l’Italia sta facendo alle persone sui loro diritti fondamentali». La risposta del vicepremier Matteo Salvini: «Mi stupisce lo stupore di chi si stupisce. Come dovevamo trasferirli? Con le mimose? Con la colomba pasquale?».
