Con ironia il giornalista Paolo Mieli, ogni mattina su Radio24 con Simone Spetia, denuncia il fenomeno social da lui battezzato “io, io, io e il defunto”, l’irresistibile tentazione, di fronte alla morte di grandi figure di pubblicare sui social una propria foto d’archivio con il defunto enfatizzando non i meriti di chi ci ha lasciato ma la luce riflessa che si rifraziona su di noi e sul nostro narcisismo.
Francesco Merlo, su Repubblica, ci è andato ancor più pesante notando, nel “diluvio di necrologi” per papa Francesco, una “strategia vampiresca” di risucchiare, esibendo la propria foto con il papa, un po’ della sua notorietà e del suo spessore. Mi sono sentito punto sul vivo perché – confesso – anch’io faccio parte della schiera di coloro che, a poche ore dalla morte di Francesco, scossi, emozionati, ma soprattutto grati non hanno potuto far altro che condividere, nei pensatoi comuni drogati dagli algoritmi, quel momento, quella stretta di mano, quei pochi secondi di fronte a papa Francesco, corredati da qualche pensiero onesto ma non troppo originale. Una disperata rivendicazione di esistenza in vita – forse – perché in fondo ci sentiamo insignificanti e inadeguati. Ma non penso sia così. Papa Francesco non guardava la tv dal 1990 e usava il telefonino solo per telefonare. Eppure, con la potenza dei suoi gesti guidati dall’attenzione verso gli altri, specie ultimi e poveri, raggiungeva con i media tutto il mondo e faceva sentire tutti vicini. Gli esperti la chiamano relazione parasociale: è la distorsione cognitiva che ci fa sentire “prossimi”, quasi vicini di casa, celebrità o figure che seguiamo sui media. Con papa Francesco quella relazione non era una distorsione ma una vera prossimità, seppur mediata, perché genuina, autentica. No, quelle foto non sono “vampirismo”. Sono le pagine di quell’“enciclica dei gesti” (cit. Mimmo Muolo) che papa Francesco ha scritto negli ultimi 12 anni.
