Storie
Quando si cammina sulla terra dell’altipiano del Tigray, a nord dell’Etiopia, la sensazione è di calpestare la durezza. Ciò che si vede sono pietre e catene montuose, gente in cammino e strade che tagliano il paesaggio. Si respira polvere quando arriva il vento e i colori, quando è sereno, sono accostati in divina armonia. In autunno tutto viene mitigato dal verde che sussegue le piccole e grandi piogge. Nascono le ninfee lungo i corsi d’acqua e il teff, un cereale privo di glutine da cui si ricava l’injera (una sorta di piadina acida), diventa simbolo di attaccamento alla vita, in una zona la cui povertà e la guerra sono sempre state protagoniste e quasi sempre dimenticate dal resto del mondo. Il 3 novembre del 2020 l’Etiopia ha visto iniziare una guerra interna che ha contrapposto le forze federali del primo ministro Abiy Ahmed (premio Nobel per la pace nel 2019) alle Tigray defense forces (Tdf), le forze paramilitari costituite dal partito Tigray people’s liberation front (Tplf). La causa che ha portato al conflitto è stata la richiesta, il 20 settembre del 2020, al National election board of Ethiopia, da parte del Tplf, di organizzare le elezioni regionali nel Tigray. Regione settentrionale dell’Etiopia, il Tigray è stato protagonista della storia del Paese soprattutto negli ultimi decenni, grazie alla sua importanza sia in termini economici che politici, avendo un ruolo di primaria importanza nel governo del Paese. Alla richiesta, il Governo rispose negativamente. Il Tplf, immediatamente, organizzò le proprie elezioni autonomamente. Il risultato delle urne, secondo il Tplf, emise la schiacciante vittoria del partito, eleggendo tutti i suoi rappresentanti in tutti i seggi disponibili. Il primo ministro Abiy Ahmed non ne riconobbe la validità, vietando peraltro ai giornalisti stranieri di recarsi nel Paese per documentare quanto accadeva. Il 4 novembre del 2020 un attacco da parte del Tplf alle basi militari dell’esercito federale diede inizio alla guerra. Nel 2021 e 2022 il conflitto mise in condizioni di estrema gravità i 6 milioni di abitanti della regione. Si contano tra i 500 mila e 1 milione di morti, di cui il 60 per cento per fame, e circa 2 milioni di sfollati interni, con intere frange di persone di origine tigrina costrette a spostarsi dalle proprie regioni di origine in cerca di riparo. Sia da Est, nelle zone confinanti col Sudan, in Amhara che da Ovest, in Afar, milioni di persone si sono spostate verso le zone di Adwa e Axum, dove tuttora risiedono circa 350 mila rifugiati. Per combattere l’esercito tigrino il governo federale si è alleato con le milizie dell’Amhara, l’Oromia (regione del centro sud del Paese) e l’Eritrea, il cui esercito ha sferzato un attacco da nord spingendosi ad Axum, Adwa, Adigrat fino a Makallè, la capitale della regione. Le conseguenze sono state spaventose: una carestia che ha portato circa il 60 per cento delle vittime a morire per denutrizione, la completa mancanza, nei 2 anni di conflitto, di elettricità, acqua potabile e Internet, motivo per il quale dal Tigray era impossibile comunicare e documentare ciò che stava accadendo. Il 2 novembre 2022, a 2 anni esatti dall’inizio della guerra, è stata sancita la cessazione delle ostilità a Pretoria, in Sudafrica tra il governo etiope e le forze regionali del Tigray. Nonostante il patto continuano le mobilitazioni di truppe nelle zone soprattutto ai confini con l’Eritrea e tuttora sono in corso atti di guerriglia e scontri a fuoco in Amhara. Le decine di testimonianze che ho raccolto parlano di saccheggi, uccisioni, aggressioni e stupri condotti per la maggior parte da soldati eritrei, anch’essi mandati allo sbaraglio dal loro Governo, affamati e disperati. Telglemariyam ad esempio dice: «Sette parenti di mia moglie sono stati uccisi dai soldati eritrei. Hanno ucciso la sorella davanti ai suoi cinque figli e sono rimasto l’unico a prendersi cura di loro», mentre Shushay ricorda «Il mio vicino di casa Yerga è stato ucciso dai soldati eritrei davanti a me. Lo hanno sgozzato e poi gli hanno tagliato la testa». Oppure Abrehet, piangendo, sussurra «Un mio vicino di casa, Hagos, è stato ammazzato dai soldati eritrei assieme a suo padre, suo fratello e suo figlio. A Gereya hanno ucciso un sacco di ragazzi, lasciando i corpi per terra». O ancora Sutun dice «Vicino alla Lion Bank i soldati eritrei uccisero un ragazzo in strada. Stuprarono molte donne, alcune delle quali sposate. Un ragazzo che conoscevo, chiamato Sied, fu ucciso davanti a me». La mancanza di cibo, acqua e corrente elettrica ha moltiplicato il rischio epidemie dovute all’assenza di medicinali e al moltiplicarsi di parassiti nell’acqua di fiume, l’unica a poter essere utilizzata durante il conflitto. In questo deserto di aiuti uno dei pochi baluardi è l’ospedale Kidane Mehret, fondato da suor Laura Girotto e gestito dalla missione salesiana delle suore di Maria Ausiliatrice, che durante la guerra ha prestato continuo soccorso alla popolazione, combattendo contro la mancanza di approvvigionamenti e le ingerenze dell’esercito. L’ospedale, fiore all’occhiello della zona, conta 42 posti letto che arriveranno a 177 una volta terminati i lavori. La missione, che ha ripreso l’attività a pieno regime, comprende una scuola materna per 400 bambini, una scuola elementare, media e superiore con 1500 studenti, una scuola tecnica con corsi professionali di sartoria, ricamo e maglieria. I rifugiati, dislocati in diversi campi tra Scirè, Axum e Adwa, sono arrivati dopo centinaia di chilometri percorsi a piedi, attraversando il deserto e infine le catene montuose che si ergono nella regione. Molti di loro sono stati costretti a compiere una scelta drastica. Hanno diviso consapevolmente le famiglie per dare una chance di sopravvivenza ai loro cari. Per fare un esempio, In una famiglia di quattro persone la madre se ne andava con un figlio e il padre con un altro, non sapendo quando e se si sarebbero rivisti. Metà hanno cercato fortuna in Sudan e l’altra metà si è mobilitata verso ovest. Nei campi non esistono presidi sanitari, scuole e, ovviamente, lavoro. Alcuni edifici, come la scuola di Adwa, ha ospitato durante l’esodo 35 mila sfollati e ogni aula, spoglia, senza finestre o servizi, accoglie fino a sei famiglie accampate e divise da nylon e stracci. Nonostante la tregua, continuano le mobilitazioni dei combattenti in Amhara e nelle catene montuose lungo i confini dell’Eritrea, che dista pochi chilometri da Adwa. Ancora ora arrivano bollettini con l’elenco dei guerriglieri uccisi sul fronte, dando luogo a giornate e manifestazioni di lutto nella maggior parte delle famiglie. Ad Adwa si svolgono periodicamente grandi raduni che mobilitano decine di migliaia di persone che chiedono pace e rispetto per i propri defunti, tutti vestiti a lutto avvolti dal gabi, il tradizionale panno bianco etiope indossato sulle spalle in segno di lutto.
La regione del Tigray è l’ultima a nord dell’Etiopia e confina con l’Eritrea. Vi abitano 6 milioni di persone ed è custode, come tutta l’Etiopia, di una delle storie più antiche d’Africa. Dal 1° secolo d.C. è stata culla della civiltà di Aksum e dal 4° secolo è stata centro di diffusione del cristianesimo. Dopo il declino di Aksum si susseguirono varie monarchie che ne influenzarono la cultura e l’economia. Subì, dopo la jihad del 16° secolo, l’aggressione ottomana e nella crisi dell’impero del 18° secolo mantenne la sua importanza come sede spirituale della Chiesa etiopica. Fu aggregata all’Eritrea durante l’occupazione italiana del 1935-41. Proprio con l’Eritrea i tigrini condividono la stessa lingua e la stessa tradizione, in pratica sono lo stesso popolo. Tra 1983 e il 1985 l’Etiopia venne colpita da una carestia di proporzioni vastissime: morirono un milione di persone. Coperta dal regime di Meghistu agli occhi dell’opinione pubblica mondiale venne svelata da una troupe della Bbc. La conoscenza di tale catastrofe mosse la comunità internazionale e costrinse Menghistu a scappare in Zimbabwe nel 1991 lasciando il Paese al collasso economico e sociale.
Fotografo documentarista, i suoi lavori, realizzati in tutto il mondo, sono pubblicati nei più importanti magazines italiani e internazionali. Collabora con Ong per reportage editoriali in ambito cooperazione. Info: www.andreasignori.it