Per anni abbiamo trovato nelle canzoni il riflesso delle nostre emozioni più autentiche: amori struggenti, ribellioni giovanili, desideri nascosti. Ma oggi, sempre più spesso, sembra che dietro i testi non ci siano più artisti ispirati, ma professionisti creativi che gestiscono uffici marketing e campagne pubblicitarie. Auto di lusso, sigarette, alcolici e accessori alla moda: le canzoni stanno diventando sempre più vetrine in cui esporre prodotti, togliendo spazio alla poesia e trasformando l’arte in pubblicità mascherata.
Questo fenomeno, conosciuto come product placement musicale, non è più un dettaglio marginale. Ormai è una strategia consolidata, soprattutto nel pop internazionale, dove artisti e multinazionali stringono accordi milionari. Pensiamo a certi nomi della scena mondiale, come Jay-Z, passato dal celebrare una rinomata marca di champagne alla promozione della propria linea di distillati e cognac, come se le sue hit fossero spot pubblicitari, con ritornelli che suonano come jingle promozionali.
Anche la musica italiana è rimasta vittima del fenomeno, per esempio Sfera Ebbasta parla di una vita fatta di eccessi, a bordo di auto costosissime con motori potenti, come se lo status di un giovane fosse misurato dalle marche più in vista. Achille Lauro, nella sua celebre hit RollsRoyce, ha trasformato l’auto britannica in simbolo di edonismo e trasgressione. Ghali e Lazza, invece, inseriscono nei loro testi riferimenti a maison dell’alta moda o dell’abbigliamento sportivo, costruendo un’immagine dove prestigio e notorietà sembrano andare di pari passo.
Il rischio più grande? Promuovere stili di vita costosi, non educativi e che alimentano dipendenze. Come non pensare al tabacco o all’alcol: in molti Paesi, dove la pubblicità diretta è vietata, le canzoni diventano il modo più astuto e immediato per far circolare certi messaggi tra i giovani.
Questa tendenza però, non è nata oggi, non è un caso che, anche icone come i Rolling Stones, gli Oasis o Bob Dylan sfoggiassero sigarette nei loro videoclip o sulle copertine dei loro album, ma allora era questione di aura ribelle, non certo di campagne promozionali orchestrate.
Vasco Rossi, negli anni ’80, con Bollicine, giocava con ambiguità e doppi sensi, suggerendo chiari riferimenti alla dipendenza, mescolati a una critica ironica e pungente alla crescente invasione della pubblicità su tv e radio private. Negli anni ’90, Cesare Cremonini ha introdotto nomi di marche famose nei suoi testi — sigarette, vodka, scooter iconici — raccontando di una generazione sregolata e ribelle, ma sempre autentica.
Quella che poteva essere una citazione linguistica o una provocazione, oggi è diventata un’alleanza tra musica e marketing. Le canzoni non regalano più solo emozioni, ma vendono lifestyle firmati, modelli da imitare, sogni preconfezionati con cura.
La musica non è più solo pop, il nuovo genere potrebbe essere definito popcommercial: un mix tra pop contagioso e marketing spietato. I testi immediati ti entrano in testa, i beat ti fanno muovere, ma quello che resta, oltre alla melodia orecchiabile, è il richiamo di qualcosa da possedere, da sfoggiare, da consumare.
Solo il tempo ci dirà se l’arte saprà ritrovare la sua purezza, libera dalle logiche del mercato, intanto la speranza è che, prima o poi, le emozioni tornino a essere di nuovo il cuore pulsante dell’ispirazione e non solo alternativi strumenti di vendita.