Nel cuore del Sud Sudan, terra ferita da conflitti e povertà, il Giubileo del mondo missionario che si celebra il 4 e 5 ottobre, si presenta come un tempo propizio per riscoprire il volto evangelico della Chiesa, capace di farsi prossima là dove la speranza sembra svanita. A testimoniarlo è mons. Christian Carlassare, vescovo di Bentiu e missionario comboniano originario di Piovene Rocchette (Diocesi di Padova), che ha vissuto sulla propria pelle l’esperienza della violenza: nel 2021 nella diocesi di Rumbek fu vittima di un agguato che lo lasciò gravemente ferito alle gambe, proprio alla vigilia della sua ordinazione episcopale. Da quella prova è nato un cammino di riconciliazione che oggi si traduce in un ministero episcopale vissuto con apertura, pazienza e misericordia. «Questa esperienza mi ha insegnato a non aver nemici, a non pormi in competizione con nessuno. L’altro è sempre un fratello di cui ho bisogno per guarire» afferma oggi al Sir.
In Sud Sudan la Chiesa si fa «comunità di resistenza e di speranza», impegnata nella promozione della pace, della giustizia e della dignità umana. L’Africa, sottolinea, è un “polmone spirituale” per il mondo, capace di offrire un respiro nuovo anche all’Europa, chiamata a riscoprire la sua vocazione evangelica e solidale. Particolare attenzione è rivolta ai giovani, protagonisti di un futuro da costruire attraverso l’educazione e la formazione integrale, in un Paese dove la Chiesa continua a investire con coraggio e visione.
In che modo il Giubileo del mondo missionario può diventare un’occasione per rinnovare lo slancio evangelico della Chiesa, soprattutto nei contesti più fragili come il Sud Sudan?
«Il Giubileo è un tempo di grazia che ci invita a tornare al cuore del Vangelo. Non è un appello solo per una parte di chiesa ma una chiamata che vuole destare ogni cristiano perché ciascuno diventi consapevole che Cristo vive e va annunciato là dove la sofferenza sembra aver spento ogni speranza. L’evangelizzazione, oggi più che mai, prende il volto della riconciliazione per costruire relazioni più umane e fraterne. Quindi alle parole si aggiungono i gesti concreti della carità: cura della salute sia fisica che psichica favorendo la guarigione dal trauma provocato dalla violenza, mobilitare le comunità locali perché migliorino le condizioni di vita, investire nella scuola e formazione umana».
Dopo la sua esperienza di ferite e riconciliazione come vive oggi il suo ministero?
«Questa esperienza mi ha insegnato a non aver nemici, a non pormi in competizione con nessuno. Questo mi aiuta ad essere più aperto, accogliente senza giudizio, più paziente nell’accettare la fatica del cammino e i suoi tempi. Non mi lascio tanto guidare dall’atteggiamento che l’altro ha verso di me, ma dalla gratitudine di aver sperimentato sulla mia pelle la divina misericordia».
Quali passi concreti sta compiendo la Chiesa in Sud Sudan per favorire la pace e la riconciliazione?
«Il primo passo concreto è quello di esserci nonostante tutto, di essere in ascolto e partecipe delle sofferenze della gente e soprattutto di quella parte di popolazione più colpita dalla violenza e dalla povertà. Non solo come missionari stranieri, ma come cristiani sud sudanesi che mostrano una via alternativa alla corruzione e alla violenza. In questo modo, la comunità ecclesiale ricuce il tessuto sociale strappato da politiche divisive, costruisce ponti là dove si erano eretti muri di separazione, indica la strada verso uno sviluppo umano sostenibile ed equo per tutti».
Cosa significa oggi essere missionari in un contesto di conflitto e povertà? Come questa testimonianza può ispirare la Chiesa e la società in Europa?
«L’Africa rappresenta un grande polmone spirituale per il mondo. Ed è un polmone giovane capace di un nuovo respiro quando la vecchia Europa si sta – forse inconsapevolmente – adagiando sulle conquiste del passato. La Chiesa in Europa ha la vocazione di far battere il cuore della gente per ciò che è buono, santo e giusto. Non ci possiamo permettere di ricadere nelle ideologie del passato. È necessario lavorare senza sosta per la pace, la giustizia, il rispetto della dignità di ogni persona senza distinzioni. Il mondo ha sete di solidarietà reale e reciproca. L’Europa può essere più sensibile nell’intervenire dove ci sono crisi umane e umanitarie, non tanto con l’aiuto materiale che libera la coscienza, ma nella consapevolezza e responsabilità di camminare insieme perché il mondo sia meno diviso e più fraterno. Non contrastando la migrazione, ma vivendola e regolamentandola perché sia occasione di incontro, di umanità e di crescita comune».
Che ruolo possono avere i giovani sud sudanesi nel costruire un futuro di pace e sviluppo e come li state accompagnando?
«La Chiesa in Sud Sudan sta contribuendo molto a dare speranza ai giovani. In un Africa guidata spesso da leader piuttosto vecchi, che usano più la forza che la saggezza che dovrebbe caratterizzarli, l’istruzione delle nuove generazioni diventa fondamentale per raggiungere una più vera liberazione. Fin troppo spesso i giovani sono stati manipolati e usati per perpetuare un conflitto che impoverisce tutti, mentre i giovani possono oggi contribuire a costruire una società più fraterna. La Chiesa offre buone opportunità di scuola a tutti i livelli dove si cerca non solo di istruire, ma anche di formare umanamente lo studente. Oltre a scuole secondarie dove giovani di diversa appartenenza etnica studiano insieme, le scuole dei fratelli La Salle e delle suore di Loreto sono un ottimo esempio, l’università cattolica del Sud Sudan offre corsi importanti e strumenti importanti per valorizzare i giovani. Oltre alle altre facoltà c’è anche il centro per la giustizia e pace che offre diplomi di studi sociali per l’analisi e la risoluzione di conflitti, la trasformazione della società e lo sviluppo di una economia circolare».