Chiesa
Cinque anni di ascolto, confronto e cammino condiviso: così la diocesi di Cefalù ha vissuto il proprio Sinodo, celebrato dopo tre secoli dall’ultimo. Un percorso che ha coinvolto comunità parrocchiali, istituzioni civili, scuole e famiglie, con l’obiettivo di riscoprire una Chiesa capace di rinnovarsi senza perdere le proprie radici. Nell’intervista rilasciata al SIR, il vescovo mons. Giuseppe Marciante ripercorre le tappe di questa esperienza, sottolineando l’urgenza di un linguaggio nuovo, di una pastorale familiare più incisiva e di una religiosità popolare capace di parlare al presente. “La Chiesa o è sinodale, o non è la Chiesa che Cristo ci ha consegnato”, afferma il presule.
Eccellenza, com’è nata l’intuizione del Sinodo?
È nata dal discorso che Papa Francesco fece al Convegno di Firenze nel novembre del 2015, quando invitò tutte le Chiese a leggere l’Evangelii gaudium in modo sinodale. Ho iniziato subito questa lettura insieme alla diocesi, scegliendo — come suggeriva allora il Papa — alcuni temi fondamentali: l’ascolto della Parola, il puntare sull’essenziale e la sinodalità. Quando abbiamo affrontato il terzo punto, ci siamo detti: ‘Perché non celebrare un Sinodo, visto che da 300 anni non se ne svolge uno nella nostra diocesi?’. In passato ci furono alcuni tentativi, ma mai arrivati alla celebrazione. Così abbiamo deciso di avviare questo cammino. Poco dopo, anche il Papa annunciò il Sinodo dei Vescovi sulla sinodalità e invitò la Chiesa italiana a un percorso sinodale nazionale. Noi avevamo già iniziato e abbiamo continuato, ascoltando ciò che la Chiesa diceva a livello universale e nazionale.
Leggendo i documenti sinodali, emerge un forte desiderio di rinnovamento, anche nelle consuetudini.
Sì. Nella mia lettera di presentazione delle Costituzioni ho detto chiaramente che, spesso, le nostre Chiese soffrono della ‘malattia dell’immobilismo’. Quando non ci si incontra, non si riflette, non si fa verifica, si cade nell’idea che tutto debba restare com’è. Ma la Chiesa cammina con la storia: è necessario aggiornare il linguaggio e la prassi, dai sacramenti al dialogo col mondo e all’impegno nella società. Questo è il senso profondo del nostro rinnovamento.
Che esperienza è stata questo cammino sinodale?
Avevamo previsto due anni, ma il percorso è durato cinque, perché la fase più impegnativa è quella dell’ascolto. Se non c’è ascolto, soprattutto dell’ambiente in cui la Chiesa vive, non si cresce. Abbiamo ascoltato non solo la “gente di Chiesa”, ma anche chi è lontano: loro ci aiutano a capire che cosa, oggi, può rendere attraente il messaggio evangelico. Siamo andati nelle scuole, abbiamo incontrato i sindaci, le comunità: un lavoro capillare.
Cosa avete maturato al termine di questi cinque anni?
Innanzitutto la necessità di cambiare linguaggio e tornare al “primo annuncio”, al linguaggio fresco della Chiesa delle origini. Dall’ascolto sono emersi tre temi fondamentali. Il primo è la sinodalità, che non è solo un metodo ma uno stile di vita della Chiesa che attinge all’ecclesiologia del Concilio Vaticano II, alla spiritualità della comunione e alla cultura del noi.
Con stile sinodale intendo un nuovo stile di vita e di missione della nostra Chiesa e che si caratterizza per il camminare insieme di tutto il popolo di Dio attraverso la promozione dell’ascolto, del dialogo e del discernimento comunitario, promuovendo la partecipazione di tutti i battezzati nel processi decisionali e pastorali.
La Chiesa è “una, santa, cattolica e apostolica”, ma, come diceva Papa Francesco, è anche sinodale. La Chiesa o è sinodale, o non è la Chiesa che Cristo ci ha consegnato, fatta di tutti i battezzati e i discepoli. Questo insegnamento di Papa Francesco è stato poi confermato da Papa Leone XIV: siamo in piena comunione con questo cammino.
Perché l’esperienza del Sinodo di Cefalù può essere un riferimento anche per altre diocesi?
Molte diocesi italiane hanno vissuto esperienze simili, alcune in contemporanea con noi. Il vero modello, però, resta quello indicato dal Magistero di Papa Francesco: ascoltare e camminare insieme. Questo deve diventare lo stile della Chiesa. Noi abbiamo scelto tre temi centrali per il nostro territorio: sinodalità, iniziazione cristiana a partire dalla famiglia e religiosità popolare. Sul primo ho già detto. Il secondo, la famiglia, deve tornare al centro della pastorale: fino ad oggi ci siamo dedicati quasi solo ai bambini, ma serve una vera rivoluzione. Dobbiamo evangelizzare e catechizzare le famiglie, perché sono loro a trasmettere la fede. Se la fede non passa attraverso la vita familiare, il nostro lavoro con i bambini resta incompleto. Infine, la religiosità popolare. La fede popolare rimanda al fondamento dell’Incarnazione in quanto rivela la presenza di Dio nella vita quotidiana e si esprime nella cultura, nella storia e nel linguaggio del nostro popolo. Essa agevola la trasmissione della fede attraverso simboli, riti e tradizioni. Ha la forza di coinvolgere anche coloro che stanno sulla soglia della fede in quanto ritrovano nelle sue espressioni le proprie radici, gli affetti più cari e i valori da cui sono attratti. Inoltre la pietà popolare irrobustisce la relazione con la comunità ecclesiale attraverso l’incontro e la festa. E’ necessario però connettere in modo coerente i riti liturgici con le manifestazioni della pietà popolare.
Spesso si sente dire “si è sempre fatto così”: ma Papa Francesco ricorda che questa frase può diventare un veleno per la Chiesa.
Le espressioni della fede popolare devono rinnovarsi nei linguaggi e nei segni, restando fedeli alla Tradizione, ma aprendosi ai cambiamenti della storia. La fede del popolo può e deve continuare a esprimersi in forme popolari, vive, autentiche. Dopo il Sinodo, il nostro impegno sarà proprio quello di aggiornare alcune prassi, collegandole meglio alla vita liturgica.