Mosaico
La Natività non è rappresentata in modo univoco dagli artisti, segno evidente che ha colpito talmente in profondità l’immaginario da generare infiniti universi pittorici. A volte con la figura solitaria di Maria al centro, è il caso della Adorazione di Filippo Lippi oggi a Berlino, realizzata alla fine degli anni Cinquanta del XV secolo. L’artista riesce a far coesistere la sacralità della Madre assorta in preghiera e dell’angelo sul lato opposto con la quotidianità di un bimbo che, tra i fiori di una natura incontaminata, si mette un ditino in bocca. Ma la nota sorprendente è quella di alcune assenze: il bue e l’asinello, ma soprattutto san Giuseppe, in una dimensione in cui Maria assume la centralità di ritorno all’icona.
Un inizio in cui un bambino appena nato, rivela attraverso la luce, la sua vera natura. Lo hanno messo giustamente in rilievo François Boespflug e Emanuela Fogliadini in un libro di qualche anno fa, “Il Natale nell’arte d’oriente e d’occidente”, edito da Jaca Book, con il Bambino della “Natività di notte”, -siamo alla fine del Quattrocento- custodito alla National Gallery di Londra, dell’olandese Geertgen tot Sint Jans, che diviene la luce che illumina la notte, vincendo una oscurità da cui emergono la Madre e gli angeli in adorazione.
Ma se vogliamo tornare nel Belpaese, e andare a ritroso nel tempo, siamo a metà del dodicesimo secolo, allora possiamo recarci a Palermo ed entrare nella Cappella Palatina, dove è possibile ammirare il mosaico che illustra episodi dell’Antico e Nuovo Testamento, con una rappresentazione della Natività che ricorda ancora una volta le icone bizantine: una Madre che guarda -è lei a guardarci attraverso l’icona, non noi, è l’affascinante pensiero di alcuni studiosi- verso l’osservatore e con il bambino che con le bende di cui è avvolto ricorda non solo le fasce dell’infanzia, ma anche quelle che avvolgeranno il suo corpo dopo il sacrificio della croce. Ricchissima l’iconografia che gravita intorno: il bue e l’asinello, l’angelo che guida i pastori, i magi a cavallo sulla strada e poi al momento dell’offerta dei doni, un Giuseppe raffigurato, come spesso accade, in una solitaria riflessione.
Ma anche i grandi della modernità, intesa come sguardo sulla attualità sociale, nel caso del Pellizza da Volpedo del Quarto Stato, hanno offerto il loro contributo. Pellizza, nel 1892, ha rappresentato in un olio su tela una Sacra Famiglia in cui ancora una volta Giuseppe medita, seduto sullo sfondo, sul mistero che lo ha avvolto. Una donna del popolo, come era del popolo la moglie dell’artista, diviene la Domina, il centro focale della scena insieme ad un bambino anch’esso “normale”, grazioso e paffuto figlio del popolo, non rampollo regale.
Chi volesse approfondire questo ed altri episodi artistici riguardanti la Natività, può farlo anche grazie a “Il Natale tra pittura e letteratura” di Simone M. Varisco e Paolo Alliata, edito da Ancora tre anni fa, e ancora valido per comprendere i nessi tra umano e divino.
Un libro che ci accompagna nella contemplazione della straordinaria solitudine in cui è immersa Maria, al centro della strada deserta in attesa della ennesima risposta negativa alla richiesta di Giuseppe di avere un posto dove risposarsi un po’, perché “non c’era posto per loro nell’albergo”, come scrive Luca. Il quadro, al Musée des beaux-arts a Mulhouse, Francia, è opera di Luc-Olivier Merson. Siamo intorno al 1920, e la solitudine umana oltre che divina diviene, in una visione quasi esistenzialistica, il centro focale dell’opera.
Le strade vuote significano la solitudine e l’indifferenza, l’incapacità di riconoscere la salvezza nell’aiuto dell’altro che non ha il troppo che regna in alcune case, e quindi è lo straniero. Anche quando il non-conosciuto è la nostra salvezza.