Storie
Don Tiziano Sofia. Un tigre salesiano tra i maya
«Come mai questo interesse per me?». È sorpreso don Tiziano Sofia che la sua vita possa interessare a qualcuno, come se non avesse fatto nulla di straordinario.
«Come mai questo interesse per me?». È sorpreso don Tiziano Sofia che la sua vita possa interessare a qualcuno, come se non avesse fatto nulla di straordinario.
Eppure basterebbero solo le persone che ha frequentato ad accenderne la curiosità: Richard Nixon, il premio Nobel per la pace Rigoberta Menchù, i medici John e Lyn Billings, papa Giovanni Paolo I e ancora tanti altri, ma soprattutto don Tiziano è stato el tigre dell’Ixcàn! Stiamo parlando del Guatemala, un paese dove la giustizia è spesso al servizio dei potenti, soffocata da corruzione e criminalità, e la violazione dei diritti umani è all’ordine del giorno. Vi è arrivato come missionario nel 1984, nel mezzo di una guerra civile durante la quale si perpetrava un vero e proprio genocidio: quello dell’indigena popolazione maya. Militari e latifondisti avevano ricacciato i quichès (una delle maggiori etnie maya) nella foresta dell’Ixcàn, privandoli delle terre coltivabili e accusandoli di complicità con i guerriglieri, quelli che poi generano l’Unidad revolucionaria nacional guatemalteca. In realtà quei campesinos non sapevano nulla di guerriglia, vivevano nella povertà assoluta, nella totale mancanza di igiene, in una giungla sperduta priva di strade e collegamenti con la civiltà. Non era nuovo a queste esperienze, il salesiano nato nel 1936 a Grantorto, in provincia di Padova: già aveva conosciuto la guerra in Libano dove insegnava storia e filosofia al liceo salesiano, da qui nel 1975 era riuscito miracolosamente a fuggire verso la Grecia con sette alunni maturandi, sotto bombardamenti feroci, facendo una traversata su una barca stipata di profughi.
Sacerdote per profeziaLa sua è stata una vocazione particolare sin dall’inizio, annunciata da una lettera di don Filippo Rinaldi, il terzo successore di don Bosco, che al padre – incontrato a Torino – aveva scritto che avrebbe avuto un figlio maschio e sarebbe diventato sacerdote. Tutto ciò si compì dopo parecchi anni, il 24 marzo 1962, anche se la vocazione era arrivata molto presto nel cuore di Tiziano: a soli nove anni volle seguire don Timoteo Munari che lo condusse all’Istituto missionario salesiano di Penango, in provincia di Asti. I genitori se lo aspettavano, ma forse non così presto, tuttavia il collegio sembrò una buona soluzione: il piccolo Tiziano era un monello e spesso scappava da scuola per andar lungo il Brenta a scovar nidi. Numerose disavventure minarono la sua salute, fin dalla caduta – a cinque anni – quando, sbattendo la testa, perse conoscenza a lungo. Poi operazioni chirurgiche, malattie tropicali e febbri malariche (ben 16), 17 fratture e l’amputazione di una falange per i lavori pesanti in missione. Con l’ultima febbre presa in Congo, arrivò al reparto di malattie tropicali dell’ospedale di Negrar quasi moribondo, ma anche questo fu superato, e a considerare le tante morti scampate in attentati, imboscate, processi e carcerazioni, forse le malattie non son state nemmeno il male peggiore.
Missionario in prima lineaDon Tiziano non ha mai considerato il suo operato di professore a Beirut e Teheran un impegno missionario; anche quando viene mandato per la prima volta in America Latina rifiuta l’incarico in un prestigioso collegio ecuadoregno, preferendo invece i villaggi nella foresta. È qui che conosce il suo vero maestro di missione: il beato padre Luigi Bolla, salesiano originario di Schio, che ha vissuto sessant’anni tra i bellicosi indios achuaras, impegnandosi nell’evangelizzazione ma anche nella conservazione del loro patrimonio antropologico e culturale. Don Tiziano ne rimane affascinato; capisce quanto sia importante che un popolo rimanga ancorato alla propria storia e alle tradizioni senza snaturarle. Per lui, però, la destinazione è un’altra: in Guatemala tra i maya, nell’Ixcàn. Un posto che, data la pericolosità, nessun religioso voleva accettare. Nella regione erano stati uccisi 44 sacerdoti in un giorno e il vescovo massacrato dopo una settimana. Eppure si trattava di una selva molto popolata, con 150 villaggi e circa 80 mila imboscati fuggiti alla ferocia della polizia militare. Niente terre da coltivare; solo giungla e animali pericolosi; ma non tanto quanto certi uomini. Con le milizie locali il salesiano doveva condividere gli spazi e l’organizzazione: di qua la missione e dall’altra parte la zona militare, in mezzo il rio Chixoy. Ma proprio quelli che avrebbero dovuto difenderlo si rivelarono invece i nemici più insidiosi. S’infiltravano nella missione come volontari per spiarlo, e don Tiziano pur sapendo non li rifiutava. Anche quando si offrirono di trasportarlo in ospedale con l’elicottero, dopo che aveva subito uno schiacciamento sotto un tronco, in realtà lo abbandonarono in un luogo deserto. Il salesiano non ha trovato l’appoggio nemmeno del vescovo locale, che lo esortava certo a evangelizzare ma a non occuparsi delle condizioni di povertà e sottomissione di quel popolo. Don Tiziano non era “obbediente” in questo senso, perché a quella gente ha insegnato tutto, dal catechismo a come si usavano il sapone e il filo per stendere i panni. Grazie a lui i maya dell’Ixcàn hanno fondato un Comitato pro diritti umani, e una dei suoi 400 catechisti, Rigoberta Menchù, è stata insignita del premio Nobel per la pace.
Con Playa Grande nel cuoreQuando è arrivato nell’Ixcàn, il salesiano dormiva sotto gli alberi con un’amaca e se ne è andato lasciando una vera e propria città chiamata Playa Grande. Ha messo in campo le sue competenze di architetto per costruire un ospedale, un orfanotrofio, una segheria e molto altro, ma non avrebbe potuto fare nulla se non fosse stato aiutato da imprenditori e volontari che dall’Italia e dal Canada lo hanno sostenuto, soprattutto la sua gente veneta. Molti sono andatisul posto a insegnare un lavoro ai campesinos, che sono riusciti a realizzare l’ultima grande impresa progettata da don Tiziano: una cattedrale con 1.500 posti. Nonostante il vescovo locale l’avesse ostacolata, è stata portata a termine grazie al volere di papa Woityla, con il quale don Tiziano si era incontrato tre volte. Durante l’omelia dell’inaugurazione però, il 7 giugno 1992, la grande festa fu guastata dal vescovo, che annunciò l’espulsione definitiva di don Tiziano dal Guatemala. Da allora ci sono stati ancora tanti altri luoghi di missione per don Tiziano, dal Nicaragua all’Argentina, dall’Amazzonia all’Africa, con il Congo e il Sud Sudan, ma un pezzo del suo cuore è rimasto a Playa Grande, dove è tornato in alcuni viaggi e dove continua a conservare rapporti di fraternità e solidarietà. Ora vive in Italia, ma tutti i giorni la sua voce raggiunge le genti dell’America Latina attraverso una trasmissione radiofonica. Forte e instancabile, don Tiziano ha ancora molto da insegnare, e sono in tanti ad ascoltarlo.
Don Tiziano Sofia sta raccogliendo fondi per sostenere l’ospedale Hermano Pedro di Guatemala City, la capitale del paese, e per l’ospedale di Playa Grande. Chi vuole sostenere le due opere può contattarlo al numero 347-0940600.
Don Tiziano Sofia veniva chiamato “el padre bandido” dai suoi campesinos, che nascosti nella foresta per paura di venire uccisi lo sentivano uno di loro. La scrittrice Gianna Sallustio prende inizio da qui per raccontarnela biografia nel suo libro Missionario tra i Maya, edito da Artegrafica Munari. Corredato da numerose immagini, ne emerge un esempio coraggioso di fede, di progresso sociale, civile ed economico. Don Tiziano stesso rivela da dove arriva questo carattere combattivo: «Sono il nipote di don Giuseppe Costa, il sacerdote che in campo di prigionia incontrò Guareschi e gli ispirò il personaggio di don Camillo». Ma questa, come racconta el padre bandido, «è un’altra storia».