IdeeLunedì 4 maggio è iniziato il percorso graduale attraverso il quale la sanità veneta tornerà alla normalità dopo due mesi contrassegnati dalla lotta al contagio da Coronavirus.
Nei cinque ospedali dedicati alla cura di pazienti Covid stanno riprendendo attività ambulatoriali, operazioni chirurgiche, riaprono i battenti i punti nascite.
La “fase due” della pandemia tuttavia non può non interrogarci su quali scelte mettere in campo per l’organizzazione futura della sanità. E non si tratta solo di scelte strategiche o economiche, sottolinea Leopoldo Sandonà, responsabile del progetto Etica e medicina della Fondazione Lanza e membro del Comitato regionale di bioetica, ci sono implicazioni di carattere etico, sia nell’ordinarietà che nella straordinarietà. «Questa esperienza ci insegna che abbiamo bisogno di un sistema flessibile, che in poco tempo è in grado di tamponare l’emergenza. Ma non basta approntare piani per gestire l’emergenza, non solo quella virale. Occorre anche organizzare le esercitazioni del personale per metterlo nelle condizioni di controllarla».Come bioeticista, il prof. Sandonà ai primi di marzo ha partecipato alla stesura del documento del comitato etico dell’Azienda ospedaliera di Padova sulla pratica clinica. Allora il timore fondato era che il sistema non tenesse, come in Lombardia, e che si dovessero selezionare i pazienti da curare in base alle risorse. «In quella sede abbiamo ribadito che anche nell’emergenza occorre mantenere i principi classici dell’etica della pratica clinica: l’autonomia dei pazienti, la beneficità da parte degli operatori e il principio di giustizia, cioè garantire a tutti la possibilità di essere curati. Di fronte all’eventuale carenza di mezzi il comitato ha raccomandato di mettere in campo tutte le azioni possibili prima di arrivare a scelte estreme, come la creazione di una relazione con i familiari e l’utilizzo delle risorse di tutte le unità operative».
Sandonà dialoga spesso con il personale sanitario e testimonia i molti sacrifici compiuti non solo da chi ha pagato con la vita, ma anche da parte di chi ha lasciato la propria famiglia o si è speso con abnegazione sul territorio. «Meglio evitare di utilizzare la retorica dell’eroismo per poi scoprire le storture del sistema, come nel caso della ricercatrice dello Spallanzani che ha isolato il virus da precaria… Occorre lavorare per non aver bisogno di eroi. E poi è necessario comprendere perché in realtà come Lombardia, Piemonte ed Emilia Romagna i grandi luoghi di contagio sono state sedi ospedaliere e strutture per anziani. È evidente che la differenza l’ha fatta la medicina di territorio».
Insomma, l’integrazione sociosanitaria si è rivelata preziosa anche nella crisi. Laddove la sanità si è sempre più ospedalizzata il virus ha trovato meno ostacoli nella diffusione. «Credo che in futuro avremo una sanità sempre più quotidiana e domestica e quindi anche la bioetica diventerà più quotidiana e meno legata alle grandi questioni dell’inizio e fine vita. Le scelte stesse di mantenere le distanze di sicurezza e l’utilizzo dei dispositivi contengono una forma etica di rispetto della salute propria e altrui. Siamo sempre più in una fase di comportamenti integrati tra persone e credo che su questo la scuola dovrebbe investire delle risorse formative in termini di educazione civica».
Infine c’è la grande questione legata agli anziani che hanno pagato il tributo più alto in termini di vite umane. «Da tempo sentiamo che qualcosa non torna nel nostro rapporto con l’anzianità cronica. C’è bisogno di ripensare le nostre strutture, ma non è tutto qui. L’aumento del numero di anziani certifica la nostra qualità di vita, ma si scontra con le difficoltà economiche dei giovani e delle generazioni di mezzo. Dobbiamo trovare il modo di ricucire queste relazioni individuando nuove forme di assistenza che permettano agli anziani di rimanere agganciati alla comunità».
