FattiChe alcune forze politiche si facciano carico anche di interessi settoriali e che i portatori di questi interessi cerchino interlocutori nei partiti non è una novità e non è neanche incompatibile con la fisiologia del sistema democratico.
La vicenda della proroga infinita delle concessioni balneari, motivo di un pluriennale contenzioso con la Ue per violazione del principio della libera concorrenza e da ultimo oggetto di un formale richiamo da parte del Capo dello Stato, ha delle implicazioni che vanno molto al di là della questione strettamente intesa. Questione che sembra arrivata a un punto di svolta a livello giurisprudenziale, a fronte del rischio che l’ennesima proroga varata con il decreto da pochi giorni convertito in legge possa essere direttamente disapplicata per il contrasto con le norme comunitarie, in coerenza con quanto emerso da due pronunce dell’adunanza plenaria del Consiglio di Stato. Entro l’estate, per giunta, si attende un ulteriore intervento della Corte di giustizia europea su un ricorso della sezione di Lecce del Tar pugliese.Dal punto di vista politico, però, il discorso merita di essere approfondito. Quello delle “concessioni demaniali marittime, lacuali e fluviali” è un settore economicamente importante e chi vi opera merita rispetto e considerazione (sempre che agisca rispettando le regole, ovviamente). Ma per difendere gli interessi economici di chi attualmente e da molti anni ormai detiene le concessioni, la maggioranza di governo è entrata in rotta di collisione con tutti. Con il massimo livello della giustizia amministrativa, che si era espressa molto chiaramente sulla materia. Con la Presidenza della Repubblica, provocando il primo, inevitabile e ineccepibile richiamo da parte di Sergio Mattarella. Con le istituzioni europee, in un momento di delicatissima trattativa per la rimodulazione di alcuni aspetti del Pnrr e mentre è slittata di un mese la terza rata dei finanziamenti del Piano perché Bruxelles potesse valutare meglio il dossier italiano sugli obiettivi raggiunti.Che alcune forze politiche si facciano carico anche di interessi settoriali e che i portatori di questi interessi cerchino interlocutori nei partiti non è una novità e non è neanche incompatibile con la fisiologia del sistema democratico. Ampliando il discorso, la stessa storia dei partiti dimostra come essi siano per lo più nati e si siano successivamente sviluppati anche in rapporto a settori della società ben definiti per condizioni economiche, tipologie lavorative, identità culturali e religiose, ecc. Non a caso si chiamano “partiti”. Quel che fa la differenza e diventa criterio di giudizio è la capacità di rapportare tutto questo all’interesse generale del Paese. Che non è soltanto il limite davanti a cui gli interessi particolari, tanto più quelli corporativi, devono cedere il passo. Ma è la prospettiva che deve orientare tutte le scelte della politica.Vale per il Governo, che è il governo di tutti gli italiani e non solo di quelli che hanno votato per i partiti che lo sostengono. Un argomento che è diventato ancor più stringente dal momento che a causa dell’astensionismo le maggioranze di seggi sono sempre più esigue minoranze di cittadini. Vale anche per gli eletti in Parlamento, che sono certamente espressione di questo o di quel partito, ma ognuno di loro “rappresenta la Nazione” (nell’art. 67 della Costituzione è scritto proprio così, con la maiuscola). Vale per gli stessi partiti, che a partire dalle rispettive identità devono però “concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale” (art.49 della Carta).
