Idee
Aquiloni di speranza, l’immagine dei bambini di Gaza
È l’immagine dei bambini di Gaza consegnata da Andrea De Domenico, fino allo scorso luglio, operatore Onu: loro sono il futuro su cui riporre fiducia
È l’immagine dei bambini di Gaza consegnata da Andrea De Domenico, fino allo scorso luglio, operatore Onu: loro sono il futuro su cui riporre fiducia
«Fino al 7 ottobre nessuno si interessava più della Palestina. Ma quel giorno c’è stato il feroce attacco di Hamas, con 1.200 morti e oltre 200 ostaggi tra gli israeliani. La reazione di questi ultimi è partita l’indomani, con bombardamenti che non hanno lasciato tregua». Sono le parole con cui Andrea De Domenico ha aperto l’incontro “I diritti umani tra le macerie”, il 27 settembre in sala Filarmonica a Camposampiero, per raccontare senza filtri la tragedia umanitaria di quella terra. De Domenico, fino allo scorso luglio direttore dell’ufficio Onu per il Coordinamento degli affari umanitari nei Territori palestinesi occupati, originario del Comune dell’Alta, è stato chiamato da un coordinamento di associazioni locali (Mano amica, Caritas, Libera, scout Agesci, Un passo avanti, Amici del cuore e Gruppone Missionario); accanto a lui Marco Mascia, presidente del Centro di Ateneo per i diritti umani “Antonio Papisca” dell’Università di Padova. Tra proiezioni di filmati, testimonianze e domande, entrambi hanno cercato di restituire la complessità, la drammaticità e la tragicità del conflitto in corso, coordinati da Francesca Schiano. Ben oltre quanto riportato quotidianamente dalla maggioranza dei media. «A oggi, si contano almeno 41 mila morti tra i palestinesi, 34 mila quelli identificati; di questi, 11 mila sono bambini e 6 mila donne – ha ripreso Mascia – Il 90 per cento degli abitanti della Striscia di Gaza ha dovuto abbandonare le proprie case, distrutte da granate e bombardamenti: si tratta di circa due milioni di persone, che già prima vivevano in un fazzoletto di terra esteso quanto il Comune di Venezia». Ora con molta fatica riescono a scappare: «Tutte le frontiere sono bloccate: solo l’Egitto ha permesso il passaggio di alcuni profughi, seppure filtrato da numerosi posti di blocco». Intanto, lungo la martoriata Striscia fanno un’immensa fatica a lavorare gli stessi operatori umanitari. «Prima del contrattacco di Tel Aviv erano presenti 13 mila operatori Onu, che in larga maggioranza avevano il fondamentale compito di scolarizzare bambini e ragazzi palestinesi. Oltre a fornire gli aiuti materiali. Ma per poter essere realmente incisivi occorrono condizioni fondamentali come la possibilità di accesso, la disponibilità di mezzi di spostamento, i finanziamenti, la sicurezza nello svolgimento delle proprie mansioni – ha precisato De Domenico – In questi mesi, per giungere nei dintorni di Gaza occorre prima atterrare con l’aereo in Egitto e oltrepassare una sfilza di posti di blocco. Veicoli? Ormai non esistono più auto che circolano per quelle strade, anche per il prezzo del carburante. Per non parlare del rischio di essere uccisi non solo a causa dei cecchini israeliani ma anche per mano delle bande di criminali palestinesi: dapprima erano gruppi di “disperati”, per divenire con il tempo sempre più organizzati e attaccare senza remore i convogli umanitari. Finora si contano almeno 220 vittime anche tra gli operatori umanitari. A questo si aggiungono i sempre scarsi contributi internazionali per il sostegno alla popolazione civile».
Una situazione di sofferenza estrema, raccontata con l’ausilio di immagini e filmati sconcertanti. Nella narrazione non si ripercorre solo la sofferenza in quanto tale, ma l’assoluta violazione dei diritti umani. «L’Idf, l’esercito israeliano, dimostra scarsa disciplina –ha incalzato senza mezzi termini De Domenico – Non rispetta neppure il personale medico, che mai come in questi ultimi mesi è stato costretto a così tanti interventi di amputazione senza anestesia: so di membri del pronto soccorso palestinese che sono stati fatti prigionieri, per poi ridursi pelle e ossa». Sulla questione fondamentale dei diritti è intervenuto di seguito Mascia, convinto attivista, coordinatore di una rete di 34 università sul tema della pace: «Tutto dev’essere proporzionato, anche le reazioni più dure. Se la polizia sa che c’è un mafioso a Camposampiero non può far saltare in aria l’intera cittadina. Questo criterio dovrebbe guidare Israele nei confronti di Hamas e dovrebbe guidare la politica internazionale». Un esempio cristallino, quasi a illuminare l’atmosfera plumbea creata in sala dall’argomento. «Deve prevalere la forza della legge sulla legge della forza. Purtroppo, i Paesi membri più importanti non fanno funzionare l’Onu, non ne cambiano gli organi come proposto dall’Italia negli anni Novanta, con il risultato che gli interventi dell’Onu si limitano solo agli aiuti, più che alla prevenzione delle guerre. Ma i conflitti non si vincono più, c’è solo distruzione: la politica deve recuperare il ruolo di primo piano». Con un pensiero rivolto all’Unione Europea, da lui stesso definita una «Commissione di guerra». Senza dimenticare gli armamenti forniti dall’Occidente a Israele: «Dagli Usa soprattutto, che in una seduta del Congresso hanno persino ospitato il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu. Ma anche altri Paesi mandano armi, come l’Italia appunto». Mascia non ha fatto sconti a nessuno. A chiudere il botta e risposta tra il pubblico presente e De Domenico: dalla percezione di Hamas tra gli stessi palestinesi al futuro in generale della Striscia, che già prima dell’ultima occupazione si ritrovava con un Pil pro capite quattro volte inferiore a quello della Cisgiordania. «Hamas è odiato da molti degli abitanti di Gaza, ma non ha vera opposizione; chi la contestava è volato dalle finestre. In compenso, ci sono i bambini, con i loro aquiloni e una resilienza ben maggiore degli adulti. Ci fanno ben sperare, ma vanno accompagnati in questo».
«Si sta male, veramente male. La gente è stanchissima. Gli sfollati sono tanti. Più di 120 mila. Molti hanno trovato rifugio nelle scuole o nelle strutture. Molti, però, vivono ancora per le strade. Alcuni hanno deciso di lasciare il Paese e sono partiti per la Siria, per la Giordania. C’è chi è andato in Iraq». Mons. César Essayan è il vicario apostolico della Chiesa cattolica latina in Libano. Raggiunto telefonicamente dal Sir, fa subito il “punto” della situazione che si sta vivendo in queste ore nella città di Beirut: «Siamo tutti scombussolati. Viviamo in questo terrore. Nessuno dorme. Nessuno sta bene. Nessuno si sente tranquillo. Prima ancora di tutti questi bombardamenti, uno studio aveva mostrato che due terzi dei libanesi viveva in uno stato di depressione. Oggi siamo agli sgoccioli, tutti quanti. Dopo cinquant’anni di guerra, non vediamo uno spiraglio di luce».
Jennifer Moorehead, direttrice di Save the Children in Libano: «I genitori stanno lottando per tenere i propri figli al sicuro, di fronte al loro peggior incubo, qualcosa che temono ormai da un anno. I bambini sopporteranno il peso di questo conflitto negli anni a venire, con conseguenze disastrose non solo per il loro benessere fisico ma anche per la loro salute mentale a lungo termine. Tutto questo deve finire adesso».