Idee
“Yonnondio”, ‘lamento per una perdita’ nel linguaggio degli indiani Irochesi, termine ripreso nel titolo di una poesia di Walt Whitman, è una storia, interrotta, poi riemersa dopo tanti anni ma mai realmente finita, che narra le vicende di una famiglia negli Stati Uniti degli anni Venti. L’autrice, Tillie Olsen (1912-2007) racconta in un romanzo che nel titolo reca proprio questa parola indiana, pubblicato solo nel 1974 ma iniziato trent’anni prima, di un padre alla perenne ricerca di un lavoro dignitoso e soprattutto non letale, come spesso accadeva allora, della moglie Anna, della figlia Mazie e degli altri piccoli che si trovano a vivere tra gli stenti, le discariche, i rischi di violenza e lo spettro della miseria. Merito di Marietti1820 è l’edizione italiana (244 pagine, 20 euro, trad. di G. Scocchera), con un saggio davvero esemplare per chiarezza e profondità di Cinzia Biagiotti e con quelle piccole accortezze editoriali che permettono l’approfondimento di un’autrice ancora poco conosciuta da noi. Creatrice in realtà di una vera e propria epica di povera gente, gli Holbrook, che devono fare salati conti prima con la miniera, le sue tenebre e le sue minacce in un momento in cui la vita dell’operaio valeva meno di niente, poi con la campagna, in una fattoria sottoposta all’affitto e quindi alle banche, agli inverni che rischiano di distruggere quel poco che si è riuscito ad accumulare nei tempi buoni. E allora un altro pellegrinaggio, nella periferia della città in via di industrializzazione, a lavorare nelle viscere, è il caso di dirlo, di fabbriche che producono carne in scatola, nel tanfo, nei tempi imposti dai capi settore che hanno da guadagnare nell’accelerazione della produzione, in cui il gelo si appiccica agli abiti senza avere neanche tempo per cambiarsi.
Olsen conosceva bene ciò che narrava nelle sue storie perché lei stessa, figlia di ebrei russi emigrati negli Stati Uniti ai primi del Novecento, aveva militato nella sinistra americana, nei sindacati, nelle organizzazioni a difesa delle donne, affascinata, come tante e tanti (basti pensare alla Ethel Mannin di “Tardi ti ho amato”) dal comunismo sovietico prima di fare i conti con i massacri e le sparizioni del periodo stalinista. Aveva lavorato in fabbrica, nei massacranti turni di quei tempi, nonostante non abbia mai rinunciato ai suoi impegni di mamma, e sapeva bene cosa significava tornare a casa dopo quei turni, e aveva visto i rischi di violenze domestiche dovute anche alle frustrazioni, alla ricerca di consolazione nell’alcol, ad una disperazione acuita dalla mancanza di educazione civile, affettiva e scolastica degli sfruttati del tempo.
La narrazione di questa Odissea industriale, agraria e urbana, diviene una sorta di avvincente monologo interiore di Mazie, una bambina, che attraversa, con gli occhi di un’infanzia privata della dolcezza e delle carezze che le sarebbero spettate, quella realtà. Eppure capace di intravedere in una sorta di sogno ad occhi aperti, qualcosa di diverso, di trasformare quel mondo di rifiuti e fatica indicibile in qualcosa di altro.
Una visione di altrove, di un amore negato e che però, in rari momenti di luce, riaffiora anche in Anna, una madre sconvolta dalle speranze deluse, dai rischi di parto in mezzo alla sporcizia e senza aiuti istituzionali, e in Jim, un padre provato dalla fatica e dal crollo delle speranze in quel laico esodo tra fabbrica, prateria, città.
Con improvvise epifanie di luce e di senso nel riconoscimento del potere sotterraneo dell’amore: “Mazie, con il fulgore del nastro verde sulla testa, si sentiva una primavera. Anna e i suoi neri occhi ridenti, i capelli corvini così lisci e lucidi da virare al viola, era per lei la donna più bella della festa. Ma ognuno portava con sé un’immagine di bellezza”.
Il racconto reale di una famiglia sacrificata al totem dell’industrializzazione.