Da alcune settimane si è discusso molto dell’introduzione di una patrimoniale, proposta prevedibilmente sfociata nel nulla a causa degli equilibri politici parlamentari e del netto stop della maggioranza di governo. Ma aver bloccato un possibile ragionamento sul tema non può significare ignorare le problematiche all’origine, data l’ormai diffusa e crescente convinzione che gli squilibri oggi esistenti nel nostro Paese – dal punto di vista economico e sociale – siano ormai insostenibili. Certo, le piazze non sono piene di cortei di protesta, ma sotto la cenere cova un pericoloso sentimento di sfiducia e rassegnazione che coinvolge ampie fasce di popolazione che i corpi intermedi non intercettano più. La politica non sa proporre un disegno di riscatto e la democrazia si rassegna a perdere progressivamente pezzi con un’astensione crescente: nelle recenti elezioni regionali del Veneto ha votato solo il 44,65 per cento degli aventi diritto. È un fenomeno che spezza la catena sociale e sembra agire alle sue estremità: da un lato gli ultimi, che non credono più nella possibilità di un riscatto; dall’altro i primi, che beneficiano di grandi vantaggi economici e di status e si rifugiano in spazi di extra sovranità garantiti da finanza, big tech e lobby internazionali.
Questi due mondi, con la rottura del legame sociale, sono diventati estranei l’uno all’altro e indifferenti anche verso le istituzioni: gli uni perché non si sentono rappresentati, gli altri perché si credono autosufficienti. Così cade ogni vincolo che un tempo teneva insieme, seppur nel conflitto, alcuni orizzonti comuni. C’è un pezzo dell’élite economica del mondo attuale, che si affaccia anche in Italia, che ha completamente smarrito le proprie responsabilità nel rendere armonica la crescita e nel confrontarsi con l’interesse generale, che deve sempre orientare lo sviluppo. Accanto a essa opera una classe dirigente che fa della politica il territorio dei propri affari e che non rinuncia a manifestare una sfacciata predominanza del profitto in ogni presa di posizione.
L’odore dei soldi è ormai dominante in tutti gli incontri internazionali, soprattutto se sono presenti gli Usa: numerosi i casi e molteplici gli esempi di intreccio con i business presidenziali, in particolare nel definire il futuro di Gaza e dell’Ucraina. È un fenomeno allarmante, che riporta a logiche imperialistiche: non è più la diplomazia degli Stati a negoziare sulla base del diritto, ma gli emissari del presidente, legati dai medesimi interessi affaristici. Siamo arrivati al punto in cui le disuguaglianze stanno corrodendo la democrazia, mentre governi e forze politiche non sanno più trovare strumenti efficaci per tornare a guidare i processi economici. Scontiamo un trentennio segnato dal mito della globalizzazione, del “lasciar fare” al mercato e ai suoi equilibri di autoregolazione, senza accorgerci che la mancanza di regole ha permesso ad alcune forze economiche di ingigantirsi fino a condizionare direttamente le politiche degli Stati. Ne è esempio evidente Nvidia, azienda big tech americana con un valore di borsa pari a 5 mila miliardi di dollari, quasi il triplo del Pil italiano, capace da sola di determinare le sorti dell’indice Nasdaq della borsa Usa. Tutto questo è avvenuto a causa dell’assenza di governo politico della globalizzazione: mentre si permetteva la piena libertà di circolazione dei capitali, i diritti rimanevano rinchiusi nei confini degli Stati nazionali. Oggi la ricchezza viaggia in tutte le direzioni, mentre la povertà tiene le persone inchiodate alle condizioni geografiche e patrimoniali della nascita, quasi sempre insuperabili.
Il lavoro – che negli ultimi secoli ha rappresentato il veicolo del riscatto economico e sociale, ha promosso i diritti, sostenuto l’integrazione e rafforzato la cittadinanza – oggi ha perso rappresentanza e capacità di incidere: è umiliato da una sproporzione inaccettabile, quando un’ora di lavoro di poche élite vale quanto l’intera retribuzione annua di un lavoratore dipendente. Lo dimostra la recente decisione degli azionisti di Tesla di approvare un pacchetto retributivo per Elon Musk di mille miliardi di dollari per i prossimi dieci anni.
Finora la democrazia liberale ha accompagnato la crescita economica creando benessere diffuso; oggi quel modello novecentesco non sembra più in grado di governare i processi di un’economia globalizzata. L’abissale distanza tra i redditi sta diventando una frattura sociale e rischia di minare l’alleanza tra sistema liberale, economia capitalistica e democrazia. Non possiamo più sottrarci alla domanda: quanta disuguaglianza può ancora sopportare una democrazia prima di andare in frantumi?