In questo periodo sto dando spazio alla modalità pedagogica per eccellenza, affrontando passo passo l’intricato mondo della relazione educativa, tracciando le caratteristiche più evidenti e dando delle sottolineature riguardanti il suo senso.
Continuo così evidenziando in quest’articolo altri due aspetti fondamentali dell’interazione educativa: l’intenzionalità e la reciprocità. Bertolini, pedagogista italiano affermato, scrive che l’educazione si poggia sulla relazione interpersonale, purché abbia delle caratteristiche chiare quali la globalità (nel senso che si rivolga alla persona nella sua interezza), l’operatività (specificando che l’educatore lavora in prospettiva partendo dal passato e dalle esperienze che questo porta), l’integrazione sociale (perciò ciascun soggetto è chiamato alla libertà e all’autonomia sia personale che collettiva). La relazione educativa quindi è una «comunicazione intersoggettiva intenzionale che non può consumarsi e autorigenerarsi, se non in una concreta vicinanza tra i soggetti coinvolti in quanto messa in atto e in rete di microprogetti in grado di riempire la dimensione spazio-temporale quotidiana degli interlocutori». Anche altri autori precedentemente avevano delineato l’intenzionalità come un caposaldo della relazione educativa, affermando che l’atto educativo presuppone un insieme coerente di azioni intraprese in vista di un fine, un sistema ordinato di mezzi; è la messa in opera di principi espliciti o impliciti, ricavati da una teoria generale ed è, per essenza, direttivo, perché le scelte sono adottate per e non dall’educando. Successivamente si specificherà che nella dualità relazionale anche l’educando gioca una partita da protagonista, accettando e non subendo le azioni dell’educatore che dà l’impulso iniziale cercando il consenso nella libertà dell’altro. La continuità relazionale è data dunque dalle risposte positive dell’educando che si accorge di quanto le risposte ai suoi bisogni trovino conferme negli agiti educativi dell’adulto. È la volpe del Piccolo Principe, l’educatore della storia, che con un gesto semplice, di saluto, esce dalla sua tana, dalle sue sicurezze, dalla sua adolescenza e con maturità educativa si fa trovare pronto al passaggio occasionale del ragazzo, invitandolo a guardare “sotto il melo” per incrociare responsabilmente il suo sguardo ed iniziare una relazione voluta, desiderata. Ciascun atto educativo o nasce con uno scopo intenzionale o non è educativo per definizione, si prefigge degli obiettivi che possano proiettare entrambi i soggetti nei traguardi di crescita personale e sociale premeditati. Di fronte l’uno all’altro, l’educatore e l’educando, si guardano e si riconoscono parte di un unicum che li definisce, che aiuta nelle diversità a riconoscersi uomini capaci di stare in relazione. È attraverso la relazione educativa che l’uomo è capace di dare forma al sé più di qualsiasi altra interazione umana; e lo è perché è funzionalmente sbilanciata sull’altro e non su se stessi. L’educatore è sbilanciato sui bisogni dell’educando e sulla progettazione del percorso educativo, l’educando è sbilanciato sulla confidenza nell’altro e la prospettiva di un futuro desiderato. Le esperienze pregresse dell’uno e dell’altro possono aiutare in questa dinamica, ma non sono sufficienti per descrivere l’alterità che si manifesta come una differenza maggiore dei due soggetti. Quindi la relazione educativa, una volta evidenziata questa discrepanza, sottolinea positivamente il valore della differenza. È in questa dialettica che il rapporto tra i due soggetti acquista un valore ben più grande della somma dei due, perché entrambi guadagnano ben più dell’incontro con un altro soggetto, ciascuno “si fa IO nel TU” (Buber). Ed è in questa prospettiva di differenze e riconoscimenti che si sperimenta la vera libertà e la centralità dell’altro come paradigma migliorativo della propria esistenza, come coscienza piena del proprio esistere mettendo in campo la propria totalità per realizzare la propria umanità. Non esiste la possibilità di riconoscerci pienamente senza riconoscere l’altro; perciò perdere l’altro significherebbe perdere anche se stessi. La nostra felicità quindi dipende da qualcun altro che come me cerca un bene grande oltre a sé. Educare all’altro permetterà ai nostri giovani, e a noi stessi, di essere veramente felici.
Matteo Pasqual Educatore, Pedagogista, Filosofo Clinico e Formatore Sociale
