Giovanni Moro, Fondaca: «La partecipazione non è finita ma ha cambiato pelle e volto»

La società attuale ha visto mutare al suo interno paradigmi consolidati da decenni e che si pensavano validi e intramontabili. Anche la politica, strettamente legata e disegnata su modelli che corrispondevano a una società omogenea e coesa, non è stata in grado di ridefinirsi, ma per Giovanni Moro di Fondaca questo lascia spazio e possibilità a nuove forme di rappresentanza cittadina differente dai tradizionali luoghi d'appartenenza.

Giovanni Sgobba

redattore

«C’è una fuga dei cittadini dalle forme di politica tradizionale, è molto diffusa nelle democrazie avanzate questa ritrosia a votare o a candidarsi. Ma è solamente uno dei tanti indicatori ai quali si affiancano nuove forme di impegno civico che sono completamente fuori dal circuito della rappresentanza, nel senso tradizionale del termine, ma comunque rappresentano meccanismi di partecipazione concorrenti e alternativi alle forme d’un tempo».

È indubbio che la società attuale ha visto mutare al suo interno paradigmi consolidati da decenni e che si pensavano validi e intramontabili. Anche la politica, strettamente legata e disegnata su modelli che corrispondevano a una società omogenea e coesa, non è stata in grado di ridefinirsi: l’impoverimento politico sia dell’elettorato attivo che passivo va ricercato anche nell’indebolimento concreto di aggregazione sociale o dei tradizionali luoghi di confronto e dibattito personali.

I corpi intermedi si sono sgretolati e con loro il senso di appartenenza e di rappresentanza, ma secondo Giovanni Moro, responsabile scientifico di Fondaca, la Fondazione per la cittadinanza attiva, dobbiamo semplicemente cambiare sguardo e cercare altrove: «Noi siamo abituati a pensare alla partecipazione politica e alla politica stessa come un fenomeno unico, ma invece è plurale, non si fa solo con le leggi e con le delibere delle amministrazioni locali. Bisogna ripristinare l’idea di politica come cura dell’interesse generale e qui si inseriscono forme differenti e anche attori organizzati diversamente. Un esempio? Parliamo dell’associazione italiana dei diabetici che si confronta con il Ministero della sanità e con l’agenzia del farmaco per far ammettere un determinato medicinale in “fascia A”, cioè a totale carico del servizio sanitario nazionale: ecco loro lo fanno parlando a nome di oltre tre milioni di italiani anche se non tutti sono iscritti alla stessa associazione. Ed è una forma di rappresentanza, certamente settoriale, ma magari concorrente allo stesso Parlamento nel quale egualmente ci possono essere iniziative riguardanti i diabetici».

Del resto, estremizzando il concetto e provocando, la più grande comunità di cittadini del mondo è la piattaforma social Facebook che nel giugno 2017 ha raggiunto 2,23 miliardi di utenti attivi mensilmente, ma è paradossalmente gestita da un privato, Mark Zuckerberg e la sua società Facebook Inc., che ha un’influenza enorme nella sfera pubblica.

Le nuove espressioni della cittadinanza nelle società contemporanee non passano insomma più, o meglio non più solamente, dai cari vecchi circoli e l’attivismo segue percorsi e trafile differenti dai processi accettati e acquisiti in passato. Parafrasando Fabrizio De André quando diceva che per fare il mestiere ci voleva un po’ di vocazione, vedremo sempre meno candidati “vecchio stampo”?

«In Italia ci sono 100 mila organizzazioni, ci sono oltre due milioni di persone che collaborano come volontari e un altro mezzo milione che lavora in queste stesse organizzazioni. È chiaro che se la politica ha difficoltà ad accogliere un determinato messaggio, quel movimento va per la sua strada. Non mi stupisce poi che, in mancanza di un rinnovamento dei meccanismi elettorali, ci sia difficoltà a candidarsi: ci si candida a posizioni decisamente meno influenti e rilevanti rispetto al passato, quando il giovane di belle speranze poteva vedere nella politica qualcosa di importante. Magari adesso segue altre strade nell’impresa, nella ricerca, nelle organizzazioni civiche».

Ma dove e quando si è creato sostanzialmente questo punto di rottura e di sfiducia? «Noi eravamo abituati a dicotomie classiche come “città-campagna” o “ Nord-Sud” e su questo abbiamo costruito processi politici. Dopo la recessione del 2008, si è creata una frattura nella struttura sociale e c’è una nuova opposizione tra cittadini comuni ed élite che non siamo attrezzati a gestirla. Il futuro della politica e del sociale sta nell’affrontare la nuova dicotomia senza salti mortali all’indietro, come negli scenari adombrati dal sovranismo».

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